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QT n. 1, 13 gennaio 2007 Servizi

Cosa ci dice il caso Welby

Le contraddizioni dei laici e il gelo burocratico della Chiesa.

Sembra essere passata un’eternità dalla fine della tragica vicenda di Piergiorgio Welby: le feste natalizie, le vacanze, il divertimento, l’impiccagione di Saddam, la solita politica italiana e l’inizio del 2007 hanno rapidamente cancellato quel clima di forte emotività e partecipazione che segnarono le lunghe settimane di battaglia di Welby sul suo diritto all’eutanasia. Ma quei giorni non rimarranno alla lunga privi di effetto perché, apertamente o sotto traccia, i temi della vita e della morte - e il conseguente ruolo della politica - interessano moltissimo i cittadini.

Al di là del dibattito sul testamento biologico e sull’eutanasia, ha suscitato scalpore (e una generale ondata di indignazione) il rifiuto dell’autorità ecclesiastica, in questo caso il vicariato di Roma, di concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, perché scelse volutamente di suicidarsi.

Lasciamo perdere i giudizi di merito per analizzare il significato più profondo di questa vicenda che investe alcuni punti delicati della vita del nostro paese: il ruolo del Vaticano e della Chiesa cattolica in Italia, il rapporto tra credenti e gerarchia, la relazione tra mondo laico e religione cristiana. Cominciamo da quest’ultimo aspetto.

E’ singolare come i laici e gli anticlericali si siano stracciati le vesti per il diniego ecclesiastico. Non è stato chiarito neppure se fosse stato lo stesso Welby a chiedere per sé il funerale religioso: sembrerebbe di no, visto che nei suoi ultimi, e comunque sempre lucidi, interventi criticava aspramente la Chiesa e non si definiva certamente credente. E si comprende molto bene la ragione: la Chiesa cattolica, insieme alla legge dello Stato, era uno dei principali impedimenti all’attuazione della sua volontà di morire, ponendo fine alle sue sofferenze e al legame con il respiratore ritenuto ormai insopportabile, era un’istituzione che lo costringeva alla più grande tortura, quella di continuare a vivere contro la propria intima deliberazione di farla finita. Per Welby la Chiesa, intesa come Vaticano e gerarchia, era una nemica.

Non si capisce perché alla fine avesse voluto ritornare, almeno simbolicamente, in seno alla comunità cattolica con un funerale religioso.

In verità furono la moglie e soprattutto la madre a chiedere che per lui si aprissero le porte della sua parrocchia. Poi i radicali, comprensibilmente, hanno utilizzato a fini propagandistici la questione mettendo nello stesso tempo la Chiesa in una situazione imbarazzante. Emerge però anche una strana sensazione quasi che il mondo laico, a parole desideroso di emanciparsi completamente da un’autorità ecclesiastica giudicata onnipresente e strabordante nella vita civile italiana, abbia ancora bisogno di un implicito riconoscimento proprio dalla Chiesa, finendo in una posizione subalterna. Le critiche alla gerarchia, a volte violente e ingiustificate, a volte argomentate e giustificabili, le assegnano implicitamente quel ruolo osteggiato e in fin dei conti le attribuiscono una fondamentale autorità morale.

Un tempo era motivo di orgoglio un funerale laico, per dimostrare che anche nel momento tragico della morte non ci si sottometteva a quel potere combattuto in vita, oppure semplicemente a un credo che non si era mai professato. Oggi la Chiesa rimane per tutti un appiglio, si richiede a essa di essere misericordiosa, di essere vicina al vero insegnamento di Cristo, in fondo di approvare intenzioni e comportamenti non in linea con la sua dottrina. Occorre insomma avere l’imprimatur. Questo fatto potrebbe far piacere ai cattolici e certamente dimostra la fragilità della prospettiva laica.

Ben diversa è stata la vasta e immediata contestazione di ampia parte del mondo cattolico, dai semplici fedeli, a parroci di lungo corso, a teologi, persino a vescovi. Il silenzio successivo e la voglia di girare pagina velocemente testimoniano questo disagio. Anche qui in Trentino, nei giorni immediatamente successivi al Natale, i quotidiani locali hanno dato voce alle considerazioni di alcuni prelati che lamentavano “l’errore”, “il boomerang”, la “mancanza di carità”, il predominio del diritto canonico sullo spirito evangelico. I pochi che sostenevano il rifiuto ai funerali, come il moralista Lorenzetti, lo facevano in punta di penna o di diritto, assumendo un linguaggio tecnico, quasi gesuitico, più da disputa tra filosofi che da una controversa questione di vita vissuta. Non parliamo poi delle valanghe delle lettere ai giornali tutte (tranne le eccezioni di Gubert, Morandini e qualche altro) critiche nei confronti della Chiesa e favorevoli alla scelta di Welby.

Certamente il comunicato del vicariato di Roma, cioè del cardinal Ruini, è stato freddo, burocratico, privo di pietà: si è voluto così dare una risposta politica a una domanda giudicata politica e non dettata dalla fede. Certo l’impatto emotivo è stato fortissimo: si sono chiuse le porte a un defunto che ha tanto sofferto nella sua vita, mentre sono stati celebrati funerali in pompa magna a pubblici mafiosi, dittatori sanguinari e venditori di morte. Nessuno comunque ha appurato - o almeno questo fatto non è stato chiarito dai mezzi di comunicazione - se sia stato proposto un funerale privato (soluzione successivamente auspicata da tanti), posto che sarebbe stato imbarazzante prendere le distanze da Welby in una cerimonia pubblica in una chiesa gremita di entusiasti inneggianti al suo gesto estremo. In nome della carità, si è detto, si poteva correre questo rischio: invece in questo modo Ruini si è messo sullo stesso piano di Pannella. In verità non si poteva pretendere dalla Chiesa di fare un pubblico elogio di Welby. Perché in questo si sarebbe trasformato il funerale.

Per chiarire meglio occorre rendersi conto dell’odierno significato delle esequie. Eliminata o quasi, nel cuore e nella mente dei fedeli, l’idea che al funerale si debba pregare per la salvezza del defunto (si voglia o non si voglia, questo è l’essenziale delle esequie cristiane) accompagnandolo nel suo ultimo viaggio e sostenendolo nella prova del giudizio divino, è rimasta una foscoliana celebrazione in memoria, laudativa o piena di conforto e di speranza in casi di tragedie particolarmente dolorose. Funerali divenuti manifestazioni civili (officiati a volte anche dal cardinal Ruini) in cui si celebrano nuovi eroi, martiri, persone semplici che con la morte si trasformano in angeli, benefattori, anime di infinita bontà e generosità.

Perché la morte stessa è troppo, è una punizione comunque ingiusta, immeritata, sproporzionata alle piccole mancanze di una vita. Se poi questa vita è contrassegnata dal dolore e la morte è una scelta voluta, opportuna, positiva, negare il funerale è uno schiaffo inconcepibile, inaudito, che solo gente senza cuore può compiere. La Chiesa quindi ha il dovere di onorare il morto a prescindere, perché, nella mentalità collettiva, in quel momento tragico fa sempre comodo un prete che, diventa però l’officiante di un rito obbligatorio in cui la fede trova poco spazio. Non celebrare il funerale è un’offesa inutile, non perché in questo modo il defunto sia scomunicato o finisca all’inferno (ormai tutti vanno in un vago paradiso, mentre il “sano” materialismo sta sparendo), ma perché si vogliono prendere le distanze dalla sofferenza.

Dalla vicenda emerge una certa distanza tra la Chiesa e la sensibilità dei fedeli, una mancanza di comunicazione e una sottovalutazione del caso, rubricato come una vicenda semplicemente politica, ma che invece scava nel profondo. Sembra quasi che si sia voluto ribadire da parte delle autorità ecclesiastiche un ruolo della Chiesa cattolica spiccatamente politico, volto a guidare le scelte concrete e non solo ad orientare le coscienze in ambito morale