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QT n. 2, 27 gennaio 2007 Monitor

“Apocalypto”

Il fortunato film di Mel Gibson sui Maya, e la sua furba infrazione dei tabù: dalla lingua originale alla violenza esibita.

Parte del successo dei film di Mel Gibson – “La passione di Cristo” e, ora, “Apocalypto” – sta nel fatto che mettono alla prova alcuni dei tabù dello spettatore medio. In questo senso, Gibson lavora sul terreno di quello che, nella definizione del teorico Dwight McDonald, viene chiamato “midcult”: un’offerta narrativa o artistica che presenta prodotti facili, massificati, conservatori e li fa passare per avanzati e innovativi perché essi sono costruiti basandosi su supposte rivendicazioni da cultura alta oppure sulla fagocitazione di linguaggi non-mainstream, di tipo sperimentale o avanguardistico. Per motivo di questo meccanismo, davanti ai due ultimi film di Gibson lo spettatore si sente sfidato intellettualmente. Ed è orgoglioso di sé quando si dimostra capace di rispondere alla sfida, all’altezza dell’operazione culturale che gli viene presentata.

Il primo tabù che viene infranto dal midcult di Gibson è quello linguistico. Come “La passione di Cristo” era recitato in aramaico, “Apocalypto” è parlato in un presunto antico linguaggio Maya. Se il latino di “The Passion” regalava momenti-Asterix di straordinario umorismo (i legionari che frustano Cristo si dicono: “Credere non possum! Resistentia eius incredibilis!”), nel caso di “Apocalypto” non si è ovviamente in grado di giudicare la verosimiglianza della lingua. Nel complesso, il suono, gutturale, affascina. A volte però si percepisce come gli attori siano costretti a recitare frasi che non capiscono e han mandato a memoria. Gli stessi stacchi frequenti della macchina da presa durante i dialoghi sembrano sottolineare la necessità per gli attori di riprendere in mano il copione a scadenze minime e regolari.

Di fatto, tuttavia, l’effetto midcult che Mel Gibson voleva ottenere viene realizzato pienamente: uno spettatore che mai e poi mai entrerebbe in sala a vedere un film europeo sottotitolato accetta invece la sfida della lingua Maya. La affronta, la supera ed esce dalla sala convinto di aver assistito a una proposta intellettualmente stimolante.

E’all’incirca lo stesso meccanismo psicologico della recente trasmissione televisiva “La pupa e il secchione”. In un gioco, alle pupe concorrenti venivano mostrate delle foto di personaggi famosi – Gandhi, Hitler, il Dalai Lama… – perché li riconoscessero. Lo spettatore, da casa, si sentiva particolarmente intelligente, essendo capace di riconoscere quei personaggi all’impronta. Poteva quindi permettersi di guardare dall’alto in basso (o dal medio in basso) la povera pupa – oca consenziente – che arrancava dietro ai suggerimenti del conduttore. Nel caso in cui lo spettatore non fosse riuscito a dare subito un nome alla foto di Gandhi, la trasmissione provvedeva generosamente, peraltro, a fornirne la didascalia. In questo modo, lo sguardo del telespettatore poteva regolarmente cadere dall’alto, con un senso di superiorità su cui la trasmissione giocava gran parte della sua psicologica capacità di attrazione.

L’altro tabù di “Apocalypto”, che tante eco ha sollevato, è quello della rappresentazione della violenza. E’ da almeno quindici anni che un discorso di questo tipo sulla violenza (esacerbata, esibita, realistica) viene portato avanti dai film dell’Estremo Oriente e poi anche dagli horror di produzione americana. Ma quello non scandalizza più di tanto, perché è cinema di genere, settoriale, non midcult. Quel cinema bisogna andarlo a cercare, non ti viene addosso – come “Apocalypto” – con migliaia di copie distribuite in tutte le sale del mondo. Gibson inserisce questa rappresentazione manierata ed esplicita della violenza in un discorso che vuol essere ideologico, moralista e politico.

E’ in questo scalino che sta tutta la presunta novità della rappresentazione della violenza in Gibson: nel portare su schermi adulti e pseudo-colti modalità espressive divenute abituali in un altro tipo di cinema o di comunicazione per immagini. Si tratta né più né meno di quel “gore” cui gli adolescenti sono già abbondantemente assuefatti. Da cui sanno prendere le distanze molto più di genitori variamente associati che recitano la classica parte dei guardiani della stalla a buoi fuggiti.

Per riflettere, invece, sul messaggio politico che Gibson vuole lanciare con questo racconto, basta leggere la citazione con cui apre il suo film: “Una grande civiltà viene conquistata dall’esterno solo quando si è distrutta dall’interno”. L’ha scritta un filosofo relativista, Will Durant. Ma possiamo non saperlo. Non sapendolo, essa assume una serie molto ampia di interpretazioni: si può pensare alla colonizzazione europea del continente americano; all’Iraq e alle ultime guerre di Bush; al nostro Occidente, minacciato dall’interno oltre che dall’esterno. Le interpretazioni sono praticamente tutte reazionarie. Per questo speriamo che, nonostante il suo successo, il midcult di Mel Gibson e i suoi discorsi per le masse sui massimi sistemi non riescano a fare troppa presa sulle menti e nell’immaginario.

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