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QT n. 2, 27 gennaio 2007 Servizi

Pagati per giocare

Quando il videogame diventa una professione. Evoluzione, successi e rischi di un nuovo, inusitato tipo di professionismo.

“Studia invece di giocare al computer, che così perdi solo il tuo tempo!” Chissà quanti giovani sono stati apostrofati in questo modo dalle rispettive genitrici, inconsapevoli in realtà che da qualche anno a questa parte anche videogiocare è diventata una professione. Ed anche piuttosto redditizia a guardare le cifre.

Ma cosa significa giocare professionalmente al computer, quanto si guadagna, come è nato questo fenomeno e soprattutto cosa comporta? Andiamo con ordine, cercando di ottenere spiegazioni avvalendoci dell’aiuto di Matteo Bittanti, scrittore e ricercatore universitario presso l’università di Standford e la IULM, ed interpellando alcuni giocatori nostrani.

Con la diffusione di internet sono stati sempre più gli utenti interessati a provare le forme di gioco in multiplayer, ovvero le sfide contro avversari reali di cui abbiamo parlato in un precedente servizio. E così sono nati i lan party: persone che si erano conosciute online si davano appuntamento a casa di qualcuno portando i propri computer e là li collegavano tra loro e si sfidavano giocando tutti nella stessa stanza. Immaginatevi in pratica di poter sbarcare (virtualmente) sulla spiaggia di Omaha: accanto a voi i vostri amici con i quali avete appena finito di pianificare l’attacco, davanti nella trincea avversaria gli sfidanti cercheranno di fermarvi mentre voi urlate e vi date ordini stando tutti nella stessa stanza.

Le case produttrici di componenti per pc, videogames, software e accessori hanno intuito subito quanto il fenomeno fosse rilevante. Sono state organizzate le prime fiere, manifestazioni e tornei, il tutto pagati naturalmente dagli sponsor in cambio di una forte pubblicità. Inoltre, più l’utente gioca in multiplayer, più sente la sfida con l’avversario e per vincerla ha bisogno degli strumenti più adatti: pc aggiornatissimo per poter scorgere ogni particolare della mappa, mouse di precisione per poter mirare al millimetro, impianto stereo per capire meglio la dinamica degli spari e via dicendo. Naturalmente, per comprare siffatti componenti (tutt’altro che economici) è necessario rivolgersi alle case produttrici sopracitate. E così si spiega perché, tanto per non fare nomi, colossi dell’informatica come Microsoft, Nvidia e Ati abbiano iniziato a spendere miliardi di dollari ogni anno per organizzare convention spettacolari e coinvolgenti nelle quali convogliare i giocatori più bravi ed accaniti. Tra le più famose sono “CPL”, una sorta di campionato che dura tutto l’anno e che fa rotta in 12 paesi diversi, e “Quakecon”, che quest’anno prenderà vita all’hotel Hilton di Dallas.

In Corea e Giappone il fenomeno è diventato ben presto di gran moda. Basti pensare che sono numerose le reti televisive dove trasmettono 24 ore su 24 partite di videogiochi. In tale contesto sono fluiti sempre maggiori finanziamenti e si è così creata una rete professionistica di giocatori che non solo ricevono (se vincono) i montepremi dei tornei, ma hanno anche uno stipendio mensile per giocare. Quello che era semplicemente un gioco, diventa un lavoro. E che lavoro: le arene dove ci si sfida sono fiere itineranti che attirano un pubblico foltissimo e nelle quali sono di volta in volta montati dai 10 ai 100 maxischermi, luci al neon, palchi e podi, musica e colori, insomma un’enorme giostra che ruota attorno ai netgamer (giocatori) che si sfidano al centro, e che per tenersi in forma sono costretti ad allenarsi a tempo pieno (“almeno otto ore al giorno”, vedi l’intervista).

Insomma, il business che si sta sviluppando dietro ai videogiochi in rete è enorme.

Come vedi, Matteo, questo fenomeno? E’ qualcosa di positivo perché porta l’attenzione dei media sui videogiochi o può esser visto come una “privatizzazione” dell’evento videulico, destinato ora solo ad una fetta di giocatori professionisti?

“L’istituzionalizzazione del gaming come forma di e-sport è un fenomeno prevedibile e ‘naturale’, anzi mi sorprende che questa nozione sia considerata nuova o inusuale in Italia. In paesi come la Corea del Sud o gli Stati Uniti, il gaming professionale è una professione a tutti gli effetti. Lo scenario che prevede l’affermazione del gaming come un fenomeno mediatico e sociale paragonabile per dimensioni al cinema e allo sport non mi sembra così improbabile né remoto”.

Fare del videogioco uno show incentiva i ragazzi ad un impegno serio per raggiungere determinati risultati o può risultare nocivo? Come valuti le persone che passano ore e ore davanti a un monitor ogni giorno e che non fanno altro nella vita?

“L’immagine del giocatore alienato, incapace di relazionarsi agli altri e perennemente incollato al computer non fa che gettare discredito sull’intera comunità. La vita dei giocatori professionisti non è limitata allo schermo. Del resto, qualunque tipo di performance – fisica, intellettuale, artistica – richiede dedizione, allenamento e pratica. Non vedo per quale motivo il gaming professionistico debba essere più nocivo di qualunque altra attività agonistica”.

L’icona del fenomeno è per tutti Jonathan Wendel, in arte Fatal1ty (si legge fatality). Era talmente bravo (o almeno così dicono) che non solo fu uno dei primi ad esser pagato per giocare, ma addirittura la Creative ha deciso di dare il suo nome ad una linea di prodotti per pc: schede madri, processori… Insomma, Fatal1ty è diventato un’icona, pagato per l’immagine e per la sua mano che si muoveva sopraffina sul mouse 12 ore al giorno. Già, 12, durante le tournée anche 14, passate giocando incessantemente davanti allo schermo del computer: per ora il giovane (ventiquattrenne) e glaciale (all’apparenza) Jonathan non manifesta alcun segno di disagio. Ma viene da chiedersi cosa farà tra qualche anno quando lo star system dei videogiochi avrà trovato altri simboli da sostituirgli e lui si troverà con un fisico inevitabilmente indebolito ed una formazione scolastica praticamente insesistente.

Ma anche i giocatori nostrani non hanno molto tempo per riposare e per pensare ad una vita normale: Stermy, un diciottenne di Genova, attualmente il migliore (e più pagato) giocatore professionista italiano, trascorre circa sessanta giorni l’anno a casa, il resto in giro per il mondo. “Molte amicizie, è logico, le sviluppi nell’ambiente e alla fine ti ritrovi con amici sparsi per il mondo. Comunque quando sono a casa ho gli amici di sempre. Prima di fare questo mestiere giocavo a calcio e lo faccio ancora adesso, vado alle feste. Nel tempo libero mi diverto. Il mio lavoro mi piace molto moltissimo e poi si guadagnano circa 150.000 dollari all’anno. Ma d’altra parte nel nostro mestiere non si guadagna solo vincendo un torneo: se sai gestirti e hai un certo rendimento, trovi degli sponsor che ti pagano l’ingaggio per partecipare alle gare”.

“Il videogioco professionistico non è solo un modo per pas-sare il tempo: quando si è dentro ad una realtà del genere è duro tornare indietro, per il semplice fatto che non è facile lasciare degli amici che ti sei fatto in una vita virtuale. - aggiunge Danny, un ragazzo trentino di 17 anni - Giocare nel periodo di vita in cui sono io non è molto facile; giocare ad alti livelli significa sacrificare dalle 2 alle 4 ore al giorno e quindi non hai tempo per uscire con gli amici tranne il sabato sera. La mattina vado a scuola, gioco nel tardo pomeriggio e la sera dalle 21 alle 24 . Ero e sono sempre fiero di quello che faccio per il semplice fatto che mi piace il netgaming e se piace a me non mi importa quello che pensano gli altri”.

Ma dietro a questa corazza di cyber-atleti proiettati nel futuro ed eletti simbolo delle nuove generazioni, cosa si nasconde? E’ il solito discorso del professionismo precoce, che riguarda anche gli atleti, e dei problemi sulla personalità non ancora pienamente formata di giovani che passano l’adolescenza in un turbinio di esperienze magari esaltanti ma pure estranianti. E se girare il mondo, conoscere persone, mezzi e località sempre diverse non può che arricchire il bagaglio culturale e giovare alla mentalità, diventa però problematico se tutto questo si accompagna all’abbandono della formazione scolastica. Ma soprattutto – e diversamente dagli atleti professionisti - il dover passare ore ed ore ogni giorno proprio nel periodo più delicato della crescita incollati ad uno schermo con conseguenze (più o meno gravi) per occhi, gambe, braccia. E non ultimo, il cervello, che dai videogiochi praticati con misura viene senz’altro stimolato, ma al contrario rischia davvero di venirne limitato se la pratica diventa parossistica.