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QT n. 6, 24 marzo 2007 Monitor

“In memoria di me”

Di Saverio Costanzo un film sulla vita in convento: un ambiente attraente eppur angosciante, narrato con pochissime parole e un uso sapiente della macchina da presa.

“In memoria di me" – seconda prova di Saverio Costanzo dopo "Private" – racconta di un giovane che sceglie di entrare in un monastero. Non si sa da dove provenga e non si capisce perché cerchi rifugio in quel luogo. Entrando, dice solo: "Ho bisogno di un ideale". Il film ci mostra la meditazione, il silenzio, le relazioni tra novizi, l’incontro con altre vite di cui il protagonista e lo spettatore arrivano a sapere poco o nulla.

Saverio Costanzo ha una vena (e un ethos) da documentarista che lo induce ad osservare la realtà restandone a contatto, nel modo più stretto possibile. Anche in "Private", la sua vicinanza con un contesto sociale di guerra, e il suo rapporto con attori non protagonisti mostravano una vera passione per il reale. In "In memoria di me" si avverte la stessa attrazione. Ma qui il reale assume toni misteriosi e indefinibili: la fede è un concetto, e il cinema non sa dove andarlo ad osservare, non è capace di fissarlo. Si tratta quindi di progredire in un vuoto, attendendo spiegazioni che non giungono.

L’attenzione della stampa si è concentrata su un bacio tra un novizio che sceglie di uscire dal convento e il priore. Ma nel complesso della trama l’episodio conta poco o nulla, e il tema dell’omosessualità non è nemmeno sfiorato. La storia è affrontata in un’ottica atemporale, priva di espliciti riferimenti alla società o alla politica. La riflessione del film non si concentra sul presente, e per questo acquista respiro e profondità.

Il film non va in cerca di motivazioni alla scelta di entrare in monastero. Nel ragionamento sul percorso spirituale di quei novizi ha molto più peso la descrizione visiva che i suggerimenti che provengono dai dialoghi. Le parole contano poco, le spiegazioni sembrano accessorie.

Il film è pieno di volti. Volti di uomini che però parlano raramente. Li vediamo, impariamo a riconoscerli, ma di molti non arriviamo mai a sentire la voce. Rimangono sempre e solo volti. Osserviamo le loro azioni, e solo dietro di esse (il dormire, l’alzarsi, il lavarsi, il pregare, lo scrivere, il pronunciare omelie) guardiamo crescere, a mosaico, la dimensione spirituale che il film vuole costruire.

Vengono in mente due documentari recenti, "Il grande silenzio" (Germania, 2005), e "Per sempre" (Italia, 2005). Il primo si è trasformato, l’anno scorso, in un caso cinematografico anche in Italia – indice di un interesse per una programmazione capace di andare contro il tipo di comunicazione dominante nei mass media, che impone di coprire di parole ogni secondo disponibile. In "Per sempre" una giovane regista, Alina Marazzi, era andata a visitare una serie di monasteri di clausura per chiedere alle monache le ragioni di quella loro scelta di esclusione dal mondo. Trova un’unica monaca, giovane anche lei, che riesce a darle delle risposte convincenti, che la soddisfano, che lei comprende. Ma apprendiamo alla fine del film che questo incontro che sembrava fruttuoso tra domanda e risposta è destinato a spezzarsi: proprio lei, questa monaca, ha deciso di lasciare il convento.

Costanzo somma allo sguardo del documentarista uno stile elaborato e rigoroso. Il vuoto della trama lo si ritrova nel vuoto dei corridoi, inquadrati con una voluta precisione architettonica e un forte senso di simmetria. I movimenti della macchina da presa sono studiati e lineari: carrellate in avanti, carrellate all’indietro, prospettive centrali, inquadrature fisse, la scelta di contrapporre il bianco dei corridoi e dei marmi a sequenze buie girate in notturna. L’impressione è quella di un regista che con i posizionamenti della macchina da presa – e già solo con quelli – riesce a comunicare qualcosa. Sempre dal punto di vista tecnico, va apprezzato lo splendido lavoro nel sound design: il suono in presa diretta di Gabriella Moretti cattura i passi, le sedie spostate, i movimenti anche minimi. Ad esso si aggiunge, in colonna sonora, una selezione molto efficace delle musiche, con Ciaikovskij e Strauss che si mescolano con brani composti per l’occasione.

Dal film di Saverio Costanzo esce complessivamente la descrizione di un ambiente attraente e spaventoso: quel mondo ha un suo fascino, ma sopra di esso domina, decisamente, un sentimento di ansia. Che nasce dai silenzi, dalla collettività dei movimenti, dal continuo giudizio cui è sottoposta ogni volontà individuale.

Ci si accorge solo gradualmente di essere in uno dei posti più belli del mondo, l’isola di San Giorgio Maggiore davanti alla città di Venezia. Quando usciamo da quel posto chiuso, e possiamo guardare l’isola dal cielo, abbiamo la sensazione di respirare, e la certezza che l’aria, fuori, sia più leggera. Anche se tutto il film contribuisce a far maturare un forte rispetto per ogni scelta personale, senza certezze, invece, su dove collocare la pienezza di vita e dove la rinuncia, lo spreco.

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