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Donne all’università di Trento

Elisabetta Schnabl

Invitata a dare un commento sulla presenza di uomini e donne nell’università di Trento - secondo l’indagine promossa dal Comitato Pari Opportunità e in relazione all’articolo (Donne: brave ma escluse) pubblicato sullo scorso numero di QT - credo non ci sia da meravigliarsi se un ‘soffitto di cristallo’ tiene lontane le donne dalle posizioni di maggior potere dell’Ateneo. Del resto, le persone investite di ruoli dirigenziali sono selezionate da una base e se in essa le donne sono poche va da sé che non ce ne siano più in alto. Tutto ciò si collega a determinanti profonde della cultura e dei comportamenti, connotate come "schemi di genere". Elaborati dalle generazioni del secondo dopoguerra e messi in discussione alcuni decenni dopo, gli schemi specifici della nostra società avevano come aspetto principale la destinazione degli uomini al lavoro nella sfera pubblica, produttivo di reddito, e delle donne alla sfera privata ed alla cura. Tali schemi appaiono da tempo obsoleti: la crescita dell’istruzione femminile che supera quella maschile e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro minano alla base tale divisione dei ruoli di genere, ma molti segni permangono, forte eredità di un ‘passato’ per nulla concluso. Ne distinguiamo i tratti anche nell’università.

Gli organismi che gestiscono l’ateneo sono a larghissima maggioranza gestiti da uomini (in media 84%). Nel corpo docente le donne sono appena un poco più presenti (22%) sull’insieme delle figure, ma al loro interno mostrano la distribuzione che ci si può aspettare, cioè la frequenza più alta nelle fasce di strato inferiore (46% tra i ricercatori). Tra le diverse facoltà le proporzioni cambiano un po’: nelle facoltà di Scienze Cognitive e di Lettere le docenti raggiungono e superano il 40%: niente di nuovo, è un fatto che rispecchia fedelmente il potente stereotipo che domina le immagini del maschile e del femminile, con le donne, più degli uomini, interessate all’arte, alla comunicazione, alle relazioni.

Le resistenze alla "scalata" femminile si verificano in particolare nei settori più prestigiosi dal punto di vista della considerazione sociale e, in generale, nei luoghi dove si prendono le decisioni. Tali disuguaglianze mutano attraverso il coinvolgimento di un vasto insieme di dimensioni, dagli aspetti istituzionali e legislativi, ai costumi e alle abitudini, ai modelli di comportamento e di valore, alla percezione interna di sé e della propria identità in relazione agli altri e al mondo. Si possono leggere le relazioni tra i gruppi sociali e quindi anche tra uomini e donne in termini conflittuali, come una lotta in cui contano i rapporti di forza. Ma io credo anche che le donne, o alcune donne, hanno rapporti ambivalenti con il mondo delle decisioni e con il "potere". Credo che si muovano cautamente, con prudenza, nella direzione di queste posizioni.

Ai temi della partecipazione e delle pari opportunità fanno capo indicazioni diffuse da tempo dall’Unione Europea, orientate alla ricerca di un miglior equilibrio tra la vita lavorativa e la vita familiare. In esse si dichiara che come le donne hanno diritto a svolgere appieno e serenamente il ruolo lavorativo e quello familiare, altrettanto hanno diritto gli uomini a pretendere tempo, valore sociale e riconoscimento per il loro ruolo familiare, oltre che per quello lavorativo. Ma, se ci riferiamo alla prevalenza delle situazioni più vicine e concrete, dobbiamo usare il condizionale: avrebbero diritto a vivere anche il ruolo familiare, se lo volessero. Molti in Italia, anche tra i politici, pensano che la conciliazione sia esclusivamente un problema delle donne. Sono lontani dal percepire come vincente la conquista maschile di un ruolo più ampio nella vita familiare, fanno fatica a farne un valore, o non ne vogliono sapere.

Tornando ai dati si può dire che la distribuzione degli iscritti alle facoltà mostra le prevalenze "classiche". Considerando i corpi studenteschi composti per più di due terzi da un sesso, abbiamo che Lettere e Filosofia, insieme a Scienze Cognitive, come già visto per il corpo docente, è "femminile"; mentre Ingegneria e Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali sono "maschili". Le altre facoltà sono connotate più leggermente: più maschi a Economia, più femmine a Giurisprudenza e Sociologia.

Il numero delle lauree conferma la maggior produttività delle ragazze. La quota percentuale delle laureate è infatti superiore di qualche punto percentuale alla quota delle iscritte in quasi tutti i corsi di laurea (ad esempio: a giurisprudenza le femmine iscritte sono il 58%, tra coloro che arrivano alla laurea sono il 62%).

Osservando in generale la traiettoria della formazione che segue il diploma di scuola superiore, appare che la proporzione di donne si alza passando dall’iscrizione all’università (51% del totale), alla laurea (53%) e alla formazione successiva alla laurea complessivamente considerata (58%). La presenza femminile cala invece nel dottorato di ricerca (44%), cioè nel corso più prestigioso. Quindi le donne si laureano e proseguono una successiva formazione in misura superiore, salvo che nel percorso che dovrebbe avviare alla carriera accademica.

Nella composizione delle scuole di dottorato vi sono prevalenze di genere in alcuni campi (i maschi nell’Informatica, le femmine in lettere, sociologia e storia) ma anche una presenza non troppo dissimile che caratterizza altre discipline, come quelle cognitive, economiche e taluni campi dell’ingegneria – e mi appare come sorpresa, seppur tra cifre minime, la maggioranza femminile in Matematica. E’ una realtà ristretta, selezionata e non generalizzabile, comunque segno del fatto che queste giovani donne accrescono le basi della partecipazione femminile e con essa le forze strutturali per il mutamento.

Vorrei dire infine che, per poter apprezzare i risultati della ricerca, essi andrebbero sottoposti a più di un confronto: con il passato nella stessa realtà, con altre realtà italiane contemporanee e con medesime realtà in altri Paesi, ad esempio. Solo la comparazione può dire a che punto del percorso siamo.

prof. Elisabetta Schnabl