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QT n. 11, 1 giugno 2007 Monitor

“Le vite degli altri”

Film prezioso, profondo, coinvolgente, sulla DDR e la Stasi; e soprattutto sull'umanità che si deve adattare a convivere con sistemi politici intollerabili.

“Le vite degli altri" è un film raro. Riesce a raccontare in modo preciso e dettagliato un periodo storico e allo stesso tempo a dotare la narrazione di una grandissima valenza emotiva. Parla di un amore, in tempi grigi, in cui nessuna relazione può rimanere privata, protetta rispetto al potere e rispetto a una volontà politica di controllo sulle esistenze individuali.

Il film ci porta dentro la vita di una coppia di artisti, uno scrittore di teatro e un’attrice, nella Germania Est degli anni Ottanta, un contesto e un periodo storico ancora in gran parte inesplorato. Qui, la Stasi è qualcosa in più di una polizia segreta. E’ un’entità onnipresente e onnipotente, dal cervello gelido e burocratico. Esiste prima di tutto nelle menti di coloro che vivono nella Repubblica Democratica Tedesca: non ci si può dimenticare della Stasi, pena l’errore, e la conseguente punizione. All’attrice capita la sfortuna di far innamorare l’uomo sbagliato, un ministro. Volendo togliere di torno il regista con cui lei convive, il ministro mette la coppia sotto osservazione, giorno e notte. La Stasi, nel film, si incarna in un agente dal corpo anonimo. A osservare la coppia si dedica un impiegato fra i più bravi, serio, che non ride mai, che si muove come una persona che ha la coscienza di vivere nella più squallida delle realtà. L’agente si prende a cuore quel caso, prima nel male e, poi, nel bene.

Il film riesce a catturare completamente lo spettatore anche se non ci viene fornita una chiave di identificazione immediata. Non riusciamo infatti a stare nella parte di nessuno dei protagonisti. Di certo non possiamo identificarci con la spia della Stasi, per quanta umanità sappia infine dimostrare. E non riusciamo a identificarci nemmeno fino in fondo con lo scrittore e l’attrice: il primo ha un rapporto ambivalente con il potere, e la seconda non riesce a dimostrarsi forte come vorrebbe essere. Lo spettatore è quindi spinto a proiettare le sue emozioni semplicemente sulla storia. E il film lo ripaga riuscendo a fargli respirare la tremenda oppressione di quel vivere. In questo senso, "Le vite degli altri" addolcisce e mette a frutto la lezione di Bertolt Brecht, il più celebre degli artisti che all’epoca avevano scelto di vivere nella Germania dell’Est. Le storie individuali, infatti, non prevalgono mai rispetto alla struttura della storia, all’impianto che il regista, l’esordiente Florian Henckel von Donnersmarck, ha saputo costruire in modo tanto perfetto.

I personaggi di "Le vite degli altri" non sono né buoni né cattivi. Sono descritti solo, splendidamente, come uomini e donne, persone capaci di grandi gesti e profonde debolezze, di generosità e di chiusura. Sono gli eventi della storia a portarli, con violenza, a stare dalla parte dell’eroismo oppure da quella del tradimento e della delazione.

Rispetto al rapporto tra arte e potere, il film continua a porre e porsi interrogativi su quale debba essere la posizione di un intellettuale all’interno di un regime oppressivo. Se debba scappare, opporsi alla dittatura anche a rischio dell’arresto o della vita, oppure convivere con il sistema, tollerato da esso, per inserire nel proprio lavoro degli elementi di critica che possano cambiare le cose, anche solo di qualche spanna.

Il film non fornisce soluzioni. Dà solo una risposta minima, provvisoria, ancora una volta brechtiana: beato il Paese che non ha bisogno di eroi. A una persona non può essere richiesta la forza di resistere alle minacce, alle torture psicologiche, al ricatto morale. Come nel "Processo" di Kafka, quello descritto dal film è un sistema in cui il colpevole è già colpevole, si tratta solo di decidere di cosa. Questo anno 1984 che ci mostra il film è quanto di storicamente più vicino esista al 1984 orwelliano. La disumanità del sistema politico della RDT emerge con un impatto comunicativo enorme. Viene messa di fronte allo spettatore senza eccessi drammatici, senza nessuna forzatura, ma con un piano realismo che rende magnetica la capacità di attrazione dello sguardo.

Al regista non interessa tuttavia parlare solo della DDR, condannare un sistema politico umiliato dalla storia. Il film di Florian Henckel von Donnersmarck parla, universalmente, del modo in cui gli esseri umani si adattano a vivere in sistemi politici intollerabili, mantenendosi a galla, vivacchiando, cercando comunque di emergere, facendo il ministro o l’attrice o il commediografo o la spia. Costringendosi a passare sopra le vite degli altri. La Stasi di questo film è un Moloch. Un monito rispetto a quanto, per estremizzazioni successive, può accadere anche a una democrazia, quando si ritrova a inventarsi nemici dappertutto, terroristi cui far la guerra all’esterno del nostro mondo e traditori da scovare all’interno di noi stessi

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