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Il genocidio invisibile

La tragedia del Darfur. A colloquio con Franco Moretti, vicedirettore di Nigrizia. Da "L'Altrapagina", mensile di Città di Castello.

Achille Rossi

“Gli ultimi calcoli sul numero delle vittime in Darfur parlano di 250.000 morti in quattro anni. Se si continua di questo passo, fra un decennio si arriva alle stesse cifre della tragedia ruandese. Come dire che un genocidio diluito nell’arco di alcuni anni finisce per diventare invisibile".

Comincia con questa amara considerazione il nostro colloquio con Franco Moretti, vicedirettore di Nigrizia, che ha visitato il Darfur nella seconda metà di marzo.

"Il genocidio in Ruanda accadde in un momento in cui l’Africa era sotto i riflettori, perché c’era il Papa in Uganda ed erano presenti nell’area centinaia di giornalisti. In questo momento, invece, l’attenzione del mondo occidentale è rivolta soprattutto al Medioriente, dove abbiamo i nostri uomini e i nostri interessi più corposi. Per ora il Darfur non rappresenta un’area particolarmente significativa per l’Occidente, anche se potrebbe diventarlo".

E in che modo?

"È risaputo che ci sono giacimenti di petrolio e di minerali strategici anche in Darfur, ma non si è ancora cominciato a estrarli, a differenza di quel che avviene nel sud del Sudan. Qui si pompa già il greggio, l’82% del quale va a finire in Cina".

Cosa l’ha colpita di più nella sua visita in Darfur?

"La mia prima sorpresa, appena atterrato a Khartoum, è stata di trovarmi in una specie di cantiere aperto, con migliaia di costruzioni che crescono come funghi". E Moretti ci spiega che il più grande albergo della capitale è costruito da una cooperativa di Ravenna e finanziato dal leader libico Gheddafi: "Il Sudan è un’ottima occasione, mi ha detto il tecnico che mi ha accompagnato a visitare lo stabile".

Il governo - ci spiega il nostro interlocutore - sta molto attento a non perdere la faccia di fronte alla comunità internazionale: "Gli spostamenti di armi avvengono di notte. Ho avuto la fortuna (o la sfortuna) di vedere tre grossi Tir che trasportavano carri armati, ma erano le due e mezzo di notte".

Quello che più colpisce è che la gente non vuole parlare del Darfur: "Mi sarei aspettato che lo facessero almeno i maestri, i catechisti, i sacerdoti dei tre milioni di sfollati del Sud che dovrebbero essere aiutati dal governo a ritornare nel loro territorio, secondo il piano del gennaio 2005. E invece niente, bocche cucite. Quando poi li provochi, ti dicono che i soldati agli ordini di Khartoum, che hanno massacrato per vent’anni la gente del Sud facendo tre milioni di vittime, erano di etnia Fur e provenivano proprio dal Darfur. Adesso anche loro cominciano a capire cosa vuol dire fidarsi del governo".

Moretti ci spiega che la differenza fra il Darfur e il sud Sudan sta nel fatto che al Sud, oltre ai problemi sociali e politici, c’è anche un problema religioso, perché la gente non è musulmana e non vuol essere islamizzata. "Gli abitanti del Darfur, a parte i 90.000 cristiani che sono quasi esclusivamente profughi del Sud, sono tutti musulmani arabi. Perciò non si può nemmeno accusare Khartoum di fare una guerra di religione".

Moretti, dopo l’inutile attesa di un permesso per il Darfur che non sarebbe mai arrivato, decide ugualmente di volare a Nyala, la capitale. "Appena giunto sulla pista, ho visto carri armati, aerei da guerra, mucchi di bombe. Mi hanno detto che spesso arrivano aerei per il trasporto di truppe che vengono inviate anche in Ciad. Eppure nessuno protesta. Le organizzazioni non governative che hanno cominciato a farlo hanno pagato un prezzo molto alto: decine di persone uccise, centinaia di impiccati, ferimenti. Gli operatori sono stati terrorizzati, oppure ostacolati in tutti i modi nel loro lavoro. Tutti gli aiuti che vengono inviati in Darfur non sono distribuiti direttamente dalle organizzazioni umanitarie, ma devono passare attraverso un comitato agli ordini del ministero dell’interno, e non arrivano a destinazione".

Il clima che si respira nella regione è pesante: "Fotografare è quasi impossibile e comunque è sempre un rischio. Io sono stato fermato due volte. La gente ha molta paura. Si parla solo nel segreto di qualche capanna e ti dicono che non sei mai sicuro che la persona che fino a ieri consideravi amica non ti tradisca e ti denunci alla polizia. Ho potuto avere informazioni abbastanza precise perché ero con altri missionari e perché ho parlato con i leader delle comunità cristiane".

Cosa ci può raccontare della situazione di disagio che vive la popolazione?

"Quando ho lasciato i campi profughi mi sono detto che solo un africano riesce a vivere in simili condizioni. E questo è un complimento per l’Africa. Al loro posto noi ci saremmo scannati da tempo e avremmo sfogato tutta la nostra rabbia in rivolte e violenze. Provi a immaginare cosa può essere Kalma, il più grande campo di sfollati del mondo: 170.000 persone secondo le stime ufficiali, 200.000 secondo altri computi, stipate in pochi chilometri quadrati. Gente seminomade, abituata ad ampi spazi, costretta a vivere senz’acqua, in promiscuità, in mezzo alle malattie".

Le organizzazioni mediche inizialmente erano riuscite quasi a dimezzare le tragiche cifre della mortalità infantile e delle malattie, ma il prosieguo della guerra e il sovraffollamento dei campi hanno fatto precipitare di nuovo la situazione. "Bisogna andarci e vedere. Riuscire a sopravvivere in quelle condizioni è un miracolo. La gente però non ha scelta, perché fuori non c’è sicurezza".

Quali sono le cause politiche della tragedia del Darfur?

"L’errore degli inglesi è stato quello di aver unificato il Darfur, che anticamente era un sultanato, con il Sudan. I Fur temevano che, una volta persa la loro identità, sarebbero stati dimenticati, sfruttati, vilipesi. Come è accaduto in Sud Sudan, anche in Darfur gli alti ufficiali, il corpo amministrativo, i poliziotti venivano tutti da Khartoum, però, siccome la cultura e la religione era la stessa, non sono scattati l’odio e la rivalità come nel Sud. Quando però nel 2003 i Fur si sono visti escludere dal trattato comprensivo di pace, siglato definitivamente nel 2005, hanno deciso di farsi sentire e hanno creato tre movimenti di guerriglia".

E la reazione del governo centrale?

"Khartoum, avendo perso il Sud o temendo di perderlo, ha deciso di non lasciarsi sfuggire il Darfur e ha sfruttato la tradizionale rivalità tra le popolazioni nomadi e quelle sedentarizzate. In tutta la fascia del Sahel, durante la stagione secca, i nomadi spingono centinaia di migliaia di capi di bestiame verso sud nei campi coltivati dei sedentarizzati, originando scontri e tensioni tra i Fur e i predoni a cavallo chiamati janjawid. Il governo non ha fatto altro che dotare questi predoni di armi moderne fornite dalla Cina e mandarli a massacrare i Fur. E’ un programma concordato; difatti spesso prima degli janjawid arrivano gli elicotteri. Spostando i Fur verso sud, uccidendone il più possibile e rimpiazzandoli con popolazioni arabe, Khartoum pensa di garantirsi il possesso del Darfur anche in caso di referendum".

Come mai la comunità internazionale sembra incapace di venire a capo di questa situazione?

"Oggi è difficile per l’Occidente portare a casa il petrolio del Medioriente e gli esperti prevedono che nel 2015 il 25% del nostro fabbisogno petrolifero

proverrà dall’Africa. Ecco perché è urgente far scoppiare la pace in Angola, nel golfo di Guinea e in Sudan, che galleggia sopra un mare di petrolio. Perciò è un rischio mettersi completamente contro Khartoum e contro il mondo islamico. Anche se la Cina si porta via la maggior parte del greggio del Sudan, la speranza dell’Occidente è di riuscire a bloccare questa intrusione del colosso cinese in Africa".

In Darfur sono presenti 97 organizzazioni non governative. Cosa può dirci della loro attività?

"Stanno facendo un grosso lavoro e senza il loro impegno oggi avremmo già raggiunto le cifre di uccisioni del Ruanda. Hanno pagato, inoltre, un alto contributo di sangue con più di 100 morti. L’Italia potrebbe fare di più e meglio. L’ospedale regalato in occasione del festival di Sanremo 2005, a due anni di distanza, funziona solo come dispensario. Ogni tanto a questi organismi non governativi vengono consegnate cose che non servono o addirittura medicine scadute oppure oggetti riciclati. Ci sono comunque in Darfur organismi molto seri, come Medici senza frontiere, che fanno un lavoro splendido".

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Andrea Anselmi

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