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QT n. 17, 13 ottobre 2007 Monitor

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

Di Christian Mungiu, ambientato nella cupa Romania di Cesauescu, un film raro, avvincente al punto di far soffrire per due ore, costruito con uno stile perfettamente aderente alla vicenda narrata, semplice, triste e catartica.

In tempi recenti, ci è capitato raramente di assistere a una narrazione cinematografica tanto avvincente, capace di far soffrire e tenere per due ore con il fiato sospeso per le sorti dei personaggi che si muovono sullo schermo. Succede guardando "4 mesi 3 settimane 2 giorni", il film rumeno di Christian Mungiu che ha vinto quest’anno la Palma d’oro a Cannes. E’ uno di quei momenti in cui il cinema riesce a abbinare a dei contenuti importanti e sentiti, all’esigenza di un racconto, uno stile, un modo di girare perfettamente adatto e aderente alla storia.

"4 mesi 3 settimane 2 giorni" ci parla di una giovane studentessa che vuole abortire. L’anno è il 1987 e nella Romania di Ceausescu l’aborto non è legale. La sua compagna di stanza nel dormitorio dove vivono la aiuta a trovare i soldi, un medico clandestino e poi una stanza d’albergo.

La protagonista del film è questo secondo personaggio, Otilia, che seguiamo per un’intera giornata. Mungiu sceglie di girare sequenze lunghe, lunghissime. Non stacca mai. Chiede ai suoi attori di conservare per lunghissimi minuti la giusta espressione, di parlare senza far perdere tono e ritmo al dialogo. E’ un cinema che dagli interpreti pretende moltissimo. Se, come avviene nel film, gli attori si dimostrano all’altezza del tour de force cui vengono sottoposti, lo spettatore si trova ad avere davanti una storia viva, che gli entra sotto la pelle: finisce anche lui in quella squallida stanza d’albergo, in mezzo ai condomini del realismo socialista, in una città inospitale, popolata da persone incattivite dalla dittatura.

Anche la fotografia, verdastra, rende come meglio non potrebbe la luminosità malata di quegli spazi. L’oppressione la si intuisce solo nei dettagli. Non c’è nessun dialogo che la affronta direttamente. Mungiu non racconta il contesto, e proprio grazie alla totale mancanza di didascalismo riesce a rendere il film saturo di tensione e violenza. La storia individuale non vuole mai diventare una riflessione più generale sul tema tremendo del controllo delle nascite nella Romania comunista. Ha la forza di costruire la vicenda scena dopo scena, accostando piani, tagliandoli e montandoli con una mirabile precisione registica.

Descriviamo soltanto due sequenze. La prima: dentro l’albergo, quando il dottore si appresta a inserire la sonda che provoca l’aborto. L’inquadratura mostra, al centro, il tavolo su cui il medico ha appoggiato la valigetta che contiene gli attrezzi del suo mestiere. Sulla destra, vediamo un vasetto di tristi fiori da albergo. Sulla sinistra, il medico maneggia gli strumenti, indossa i guanti. L’inquadratura ne taglia la figura al di sotto delle spalle. Non vediamo la faccia del dottore, vediamo solo le mani, le braccia. Abbiamo tutto il tempo per guardare il brutto maglione di lana che indossa. Il film è girato in formato 2,35:1. L’inquadratura è lunga, e piena di cose, ma ci viene dato il tempo per osservare tutto, per farci catturare dalla messa in scena, oltre che dai contenuti, dal racconto, dalle parole.

L’altra sequenza memorabile è quando la protagonista lascia sola l’amica nella stanza d’albergo perché deve pagar visita al fidanzato: sua madre festeggia il compleanno. Per tutto il tempo in cui è a questa festa, i pensieri di Otilia sono rivolti alla sua amica. E non solo i pensieri di lei, ma, con un’adesione totale, anche quelli dello spettatore, che continua a invocare mentalmente il ritorno di Otilia in albergo.

Il piano in cui la protagonista si siede a tavola è un capolavoro: Otilia è al centro dell’inquadratura, guarda in basso, pensa al suo dramma; alla sua destra c’è il fidanzato, più in là la madre di lui, e poi un’amica di famiglia; alla sua sinistra c’è il padre del fidanzato e un altro conoscente, di cui vediamo il profilo, la figura tagliata. Per forse dieci minuti assistiamo a chiacchiere su cose futili, condotte in modo intelligente da esponenti di una classe intellettuale, medici. Dieci minuti di questa incredibile inquadratura fissa, piena di parole ma soprattutto di rimandi a tutto quello che è esterno rispetto a quel quadro. Anche quando si alzano in piedi per brindare, Mungiu li accompagna sollevando la macchina da presa, senza staccare.

Christian Mungiu costruisce una suspence di tipo hitchcockiano: lo spettatore sa cose che altri protagonisti della vicenda (il fidanzato, i parenti di lui) non sanno, e quindi vive empaticamente i destini della ragazza che sta al centro dell’inquadratura, senza sforzarsi di non apparire tesa. Qui la suspence non è basata però sul thriller ma sul dramma. La paura dello spettatore è dovuta a un tipo di ansia che non prevede criminali assassini, ma rimanda ad altri delitti, politici, sociali.

E’ a quell’orrore che vanno attribuite tutte queste parole vuote, tutta questa solitudine.

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