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L’ultima magia del Cavaliere

L'ennesimo guizzo populista di un imbonitore nato.

Creare un nuovo partito non è cosa da poco. Abbiamo visto il caso del Partito Democratico. Veniva da due partiti già esistenti, con militanti ed apparati consolidati, eppure ci sono volute decisioni dei gruppi dirigenti, commissioni che hanno elaborato una carta di valori costitutivi, assemblee di simpatizzanti, elezioni dei dirigenti, congressi, redazione di uno statuto, insomma un processo complicato e tale da impegnare una moltitudine di persone sviluppandosi in una pluralità di scadenze temporali. Invece per il Partito del Popolo delle Libertà è bastato un fine settimana, un semplice annuncio accompagnato dall’allestimento di qualche migliaia di gazebo per raccogliere le firme incontrollate dei seguaci del vecchio partito di Forza Italia sotto un appello che chiedeva la caduta del governo. Insomma, non si tratta di un nuovo partito o di un partito nuovo, ma semplicemente del cambio del nome di quello che già esisteva. Un mutamento della ditta, cioè dell’insegna. Una semplice e tipica operazione di marketing.

Il demiurgo di una tale magia, Silvio Berlusconi, non è un personaggio nuovo che appare sulla scena devastata della nostra politica per annunciare il nuovo verbo della salvezza. E’ anzi lo stesso artefice principale di una tale devastazione.

Ancora una volta si impalca come un imbonitore da fiera ed annuncia non uno, non due, non cinque, ma sette, otto, dieci milioni di firme a sostegno del suo funambolico progetto. Con il piglio tipico di un illusionista riesce a far vedere lucciole per lanterne, a trasformare il grigiore di un declino in un luminoso miraggio. La verità è che la finta alba del nuovo partito serve solo a coprire il reale tramonto della Casa delle Libertà.

Silvio Berlusconi arringa la folla.

Nessuno dei suoi tradizionali alleati ha colto con favore la proposta di convergere nel nuovo partito vagheggiato dal cavaliere. Fini non gli perdonerà mai di avere cullato il neonato partito di Storace e della Santanchè, scavalcandolo senza pudore nell’appoggiare questa nuova incarnazione della nostalgia fascista. Casini e Buttiglione covano sogni neocentristi e da tempo oramai hanno maturato il proposito di liberarsi dalla sua tutela. La Lega ripudia da sempre con disgusto la stessa idea di confondersi in un partito "nazionale". La colla che ha tenuto assieme la coalizione dopo le elezioni dello scorso anno si è seccata sotto l’influsso dell’arida strategia berlusconiana.

L’annuncio, ribadito ogni mese, della imminente caduta di Prodi può servire a saldare un’alleanza per un anno, forse per due, ma la sua congenita sterilità a lungo andare non regge. La tenace incredibile resistenza nel governo di centrosinistra che, malgrado la sua debolezza parlamentare e la sua interna eterogeneità, è riuscito a portare in porto ben due finanziarie, ha fiaccato un’opposizione priva di argomenti e macchiata da un retaggio indecoroso.

Di nuovo c’è la disponibilità a trattare con la maggioranza attorno alla riforma della legge elettorale. Una legge orrenda, varata con arroganza nei mesi terminali della scorsa legislatura, che da sola, in una società normale, dovrebbe bastare per squalificare per sempre le forze politiche che l’hanno concepita e generata. Oggi è unanime il giudizio che occorre riformarla. Ma l’operazione non è facile. Le esigenze per il buon funzionamento della nostra democrazia, prima fra tutte la drastica riduzione della frammentazione dei partiti, urtano contro l’odierna composizione del Parlamento. Veltroni ha lanciato l’idea di un ritorno al proporzionale, intrecciando il modello tedesco e quello spagnolo, con un gioco di artificio che sotto l’apparenza di un proporzionale che piace ai partiti minori sembra nascondere marchingegni tecnici che dovrebbero invece falciarli. Non so se il gioco così astuto potrà riuscire. Fatto sta che Berlusconi ora non punta più su illusorie spallate, ma si insinua in questa trattativa gravandola però di una condizione pregiudiziale, che cioè varata la nuova legge si vada subito alle elezioni. E’ il suo ultimo disperato tentativo di raggiungere l’ossessivo scopo che persegue dall’indomani dell’ultima consultazione. Veltroni ha respinto la condizione. Il governo non si tocca. Non basta riformare la legge elettorale, occorre anche por mano alla Costituzione.

La linea è giusta e va tenuta salda con fermezza. Il governo Prodi e la sua maggioranza, con tutti i vizi da cui sono affetti, hanno dimostrato almeno questo: che con paziente, costante, indefesso, pragmatico impegno è possibile uscire dallo stagno e farci intravvedere qualche barlume di speranza di una non lontana rinascita.