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Bassi salari e sindacati

L’economia italiana è basata su bassi salari, bassa crescita, bassa produttività. Solo per colpa dei sindacati? Una risposta a Renato Ballardini.

Franco Ianeselli

I salari italiani sono al palo. Dal 1993 ad oggi (dati IstatIres) hanno mantenuto il potere d’acquisto, ma senza crescere oltre l’inflazione. Le retribuzioni di fatto, sull’intera economia, hanno fatto registrare una crescita media annua del 3,4%, a fronte di un’inflazione del 3,2%. Retribuzioni di fatto, si è detto, che includono gli effetti di tutti i tipi e livelli di contrattazione, dei mutamenti nella struttura dell’occupazione per qualifica e inquadramento, di premi, indennità varie, straordinari, anzianità eccetera. Perché se si prendono a riferimento le sole retribuzioni contrattuali, invece, il dato diventa addirittura negativo: la crescita media annua è del 2,7%, inferiore di mezzo punto percentuale all’incremento dei prezzi.

Questi dati sono resi ancora più preoccupanti dal confronto con quanto avvenuto contemporaneamente fuori dai confini della penisola. Mentre le retribuzioni italiane (già molto più basse rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei) restavano bloccate, tra il 1998 e il 2006 (dati Ocse-Ires riferiti all’industria manifatturiera) queste aumentavano mediamente del 10% in termini reali nell’Eurozona, con picchi superiori al 15% in Francia e nel Regno Unito.

La questione salariale - ben conosciuta da milioni di lavoratori e oggetto di aspri conflitti tra sindacato e imprese – è ritornata agli onori delle cronache specialmente dopo un recente intervento del governatore della Banca d’Italia Draghi, che si è accorto, diversamente dal suo predecessore, di una realtà drammatica per moltissime persone (donne e giovani fra tutti) e che rappresenta contemporaneamente una causa ed un effetto della nostra stagnante economia.

Le frasi di Draghi hanno suscitato l’attenzione anche dell’avvocato Renato Ballardini, che nel consueto editoriale su Questotrentino (Salari miseri, sindacati immobili) propone una ricetta semplice e appetitosa: serve una "rivoluzione culturale", in quanto bisogna ritornare alle radici dell’internazionalismo socialista e sindacale con l’obiettivo di "aumentare le retribuzioni dei lavoratori della Cina Popolare". Risultati che secondo l’editorialista sono attualmente impraticabili a causa dell’immobilismo rivendicativo dei metalmeccanici della Fiom e per l’esistenza delle "tre centrali sindacali, la triplice Cgil-Cisl-Uil, reperto archeologico di tempi lontani, che oggi non ha più alcun senso, se non quello di gratificare, salvo rare eccezioni, una casta di burocrati incartapecoriti".

E io che pensavo ingenuamente che qualche responsabilità ce l’avessero anche i governi e gli imprenditori! Mi dispiace anche per tutte le operaie e gli operai metalmeccanici che, battendosi per il rinnovo del contratto nazionale, l’ultima volta sono arrivati addirittura a bloccare le autostrade: pensavano di fare il massimo per strappare degli aumenti dignitosi, ma in realtà stavano lì a grattarsi l’ombelico...

Battute a parte, a me pare che la questione affrontata in quel modo da Ballardini – gli effetti della globalizzazione dei mercati sulla nostra economia nazionale – richieda un minimo di riflessioni di contesto: se la mondializzazione (Cina, etc.) in quanto tale penetra tutte le economie, come si spiega la particolare sofferenza dei salari italiani, che crescono meno, molto meno di quelli dei nostri partner europei?

Se questo dipendesse esclusivamente dall’inadeguatezza del sindacato nostrano, non ci sarebbe un granché di cui allarmarsi: un altro paio di editoriali e i lavoratori, prima o poi, capiranno.

Forse (aggiungo: purtroppo) la faccenda è più intricata e dipende come minimo da tre fattori che caratterizzano l’economia italiana: bassi salari, bassa crescita, bassa produttività. Senza una politica in grado di tenere intrecciate tutte e tre le questioni si faranno pochi passi in avanti (al di là del modello contrattuale di riferimento). Senza investimenti in ricerca e sviluppo in grado di farci almeno avvicinare ai livelli degli altri paesi sviluppati, il nostro tessuto produttivo rimarrà inevitabilmente fragile, così come ne risentiranno, altrettanto inevitabilmente, le retribuzioni. Questo è il punto.

Ciò non significa trascurare altre priorità comunque da perseguire ai fini di una rinnovata e più efficace politica dei redditi: aumenti contrattuali collegati all’inflazione effettiva ed agli incrementi di produttività, rispetto delle scadenze nei rinnovi dei Contratti nazionali ed estensione del secondo livello, misure efficaci per il controllo di prezzi e tariffe, accompagnate da una piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale che grava sui redditi da lavoro dipendente e da pensione.

Un mix di rivendicazioni, dunque, buona parte delle quali devono nascere direttamente dai territori: le attuali vertenze trentine sull’abbattimento delle rette degli asili nido e sulle politiche per la casa, per calmierare un mercato immobiliare impazzito, vanno considerate come parte integrante di un’unica strategia.

La Cgil (giusto per restare in casa propria) è piena di pregi e difetti; le difficoltà con cui sta procedendo la Confederazione Europea dei Sindacati (con responsabilità più scandinave che mediterranee) sono un problema reale. Credo però che senza il sindacato confederale l’Italia e il Trentino sarebbero certamente delle società più divise, più ingiuste, con minore speranza per il futuro. Le critiche, va da sé, fanno sempre bene.

E resta inteso che se poi provengono dal "pesciolino rosso" (vedi L’esemplare autobiografia di Renato Ballardini), lo fanno ancora di più.