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QT n. 22, 22 dicembre 2007 Monitor

“Paranoid Park”

Di Gus Van Sant un intenso film che riesce, per un'ora e mezza, a farci seguire e rendere importante la giornata di un teenager americano.

Dopo "Elephant" e "Last Days", anche "Paranoid Park" racconta una storia "di giovani". A rendere grande il film, e lo sguardo di Gus Van Sant, è la mancanza di presunzione: il regista americano non vuole generalizzare, sociologizzare, pedagogizzare: vuole seguire un ragazzo, la sua piccola storia, la sua vita, senza spiegare nulla, stando solo a guardare con attenzione infinita ai piccoli momenti nascosti in cui il protagonista, Alex, prende delle scelte.

Gus Van Sant non ha problemi a dichiarare che queste tematiche e queste forme della narrazione gli sono state suggerite dalla visione di film girati da due suoi coetanei belgi: Jean-Pierre e Luc Dardenne. E’ facile dichiararsi debitori dello stile di Bresson o di Rossellini o della Nouvelle Vague; meno facile, e del tutto coraggioso, è affermare che a cambiare il proprio modo di fare cinema sono stati quattro-cinque film – socialmente impegnati e artisticamente perfetti – realizzati da due colleghi in un’altra parte del mondo.

Van Sant porta all’interno del cinema indipendente americano questa attenzione ai personaggi, ai loro movimenti, la sensibilità alla maniera, al tatto con cui certe storie vanno raccontate. Le trame non parlano più, ovviamente, del sotto-proletariato di Liegi: raccontano storie di ragazzi americani – giovani, biondini, con lo skateboard. Lo spettatore finisce per passare minuti interi a guardare, ammirato, il modo in cui la macchina da presa inquadra, al ralenti, i gesti dei giovani skaters. La performance sportiva dei ragazzi viene seguita dall’occhio del regista senza affettazione, con movimenti sinuosi della cinepresa che si arrampica, anch’essa, lungo le pareti delle piste da skate. Nel frattempo, la colonna sonora ci propone musiche che passano da Nino Rota a Elliott Smith; e nel frattempo la fotografia di Christopher Doyle non ha paura di sfidare i controluce, di cercare i contrasti, di sovraesporre, di passare dal digitale all’analogico, con splendidi salti visivi.

Non bisogna tuttavia pensare che "Paranoid Park" sia un film estetizzante, attento solo agli equilibri coloristici e ai movimenti di camera. La concentrazione di Gus Van Sant sui personaggi è infatti totale. Al regista preme seguire Alex. Sempre. Anche quando non ha niente da fare, anche quando compie azioni che non portano avanti la storia, quando non sa nemmeno lui se quella che prova è preoccupazione o tristezza o semplicemente noia. Van Sant gli sta appresso, per mostrare quanto ci tiene. Ha cura non solo della storia che racconta e del modo in cui viene raccontata: è proprio per lui, Alex, che prova affetto. Standogli addosso, non vuole tentare di "capirlo", spiegare i suoi gesti. Gli basta esser lì accanto come un amico: anche in silenzio, ma senza imbarazzo. Quando Alex si fa una doccia, l’acqua, per un minuto, gli cade dai capelli lunghi e forma rivoli che cambiano di intensità in base ai suoi movimenti. Prima dello stacco, la musica si trasforma in uno stridio di gabbiani.

In un’altra scena straordinaria, Alex viene convocato in sala professori per parlare di uno strano delitto in cui rischia di essere implicato. La sequenza mostra, in prospettiva centrale, un lungo tavolo. Da una parte, alla nostra sinistra, sta Alex. Dall’altra vediamo un investigatore di origine asiatica, incaricato del caso. Dopo alcuni minuti di dialogo tra i due, la macchina da presa inizia a muoversi lentamente in avanti, sopra il tavolo. E si gira poi sulla sinistra, isolando Alex, inquadrando solo lui. Arriviamo a un primo piano del suo volto, tanto efficace proprio perché arriva dopo quello scambio di parole, fredde ma complici, tra un investigatore e uno studente appassionato di skate, tra un uomo e un ragazzo. Nella sala docenti, leggiamo su un cartello la parola "Aspire", "aspira". Il problema, uno dei problemi, è lì: l’ambizione, così invocata, diventa un obbligo, un imperativo. Non essendo più una scelta, diventa un sentimento totalitario.

I genitori, che pur ci sono, appaiono solo di schiena, o fuori campo, o sfocati. Vediamo bene il padre solo a fine film. Quando un amico gli chiede: "Com’è tua madre, fica?", Alex non può rispondere. "Non lo so", dice. Non lo sappiamo nemmeno noi spettatori, che del padre e della madre riusciamo a percepire solo una cosa: l’assenza.

Un’amica gli fa domande sulla separazione dei suoi, e Alex risponde che ci sono cose più gravi, tipo la guerra in Iraq, la fame nel mondo... "Ma non sono cose che capitano a te!", gli dice lei allora. Risposta sbagliata, ma esatta, giusta. Nel momento in cui guardiamo il film, anche per noi è così: i nostri occhi sono solo per Alex, per quello che capita a lui. La sua vita, per un’ora e mezza, è tutto quello che c’è di importante.

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