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QT n. 1, 12 gennaio 2008 Monitor

“Cous cous”

Del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, è un film sull'integrazione, sulla famiglia, sul lavoro. Una storia perfettamente raccontata attraverso un uso sapiente dei dialoghi quotidiani, magistralmente interpretati da attori non professionisti.

"Cous cous" racconta la storia di Slimane Beiji, un sessantenne nato in Tunisia, abitante di Marsiglia. Alle soglie delle pensione, si trova costretto ad abbandonare il lavoro della sua vita, al cantiere navale. Non vuole ritirarsi, unirsi ai vecchietti che giocano a carte e spettegolano al bar. Si mette in testa di aprire una nuova attività: un ristorante, su una barca, che serva come piatto principale il cous cous di pesce.

E’ una storia bellissima, semplice eppure intricata, complicata da una fitta trama di rapporti familiari e amicali. Il titolo originale è più preciso rispetto a quello italiano, banale, furbescamente gastronomico: l’originale dice "La graine et le moulet" (il grano e il cefalo). Il binomio intende suggerire come elementi in apparenza distanti, che non hanno a che vedere l’uno con l’altro, finiscono per sorreggersi, completarsi, darsi un reciproco valore aggiunto. La lettura metaforica si trasferisce naturalmente all’integrazione tra nativi francesi e immigrati tunisini. Ma va oltre. Il protagonista del film, infatti, oltre a essere in mezzo tra la cultura di provenienza e quella di acquisizione, è anche in mezzo tra due famiglie. La prima è più tradizionale – un’ex-moglie in carne, figli maschi, giovani donne che hanno problemi con i rispettivi mariti... – e legata ai costumi tunisini. L’altra è più moderna, più francese: Latifa, la sua nuova, affascinante compagna gestisce un albergo. Ha una figlia, Rym, adolescente, disinvolta, ciarlona, irresistibile.

Slimane svolge il suo ruolo di cerniera – tra tradizioni, tra due concezioni di famiglia – a modo tutto suo. Non parla molto. Ascolta, e fa, o tenta di fare: va a comprare il pesce fresco e lo porta in famiglia, lo regala. Va in giro in motorino. Prova a organizzarsi una vita, a dispetto di chi lo sottovaluta.

Oltre al tema della famiglia, quello del lavoro è l’altro grande centro di interesse del film. Si vede il lavoro dei pescatori, degli operai delle darsene, dell’albergatrice, della burocrazia, del potenziale piccolo imprenditore. In mezzo tra queste due zone tematiche c’è il lavoro che si fa all’interno della famiglia: il lavoro domestico, affidato, in gran parte, a donne indipendenti, volitive, coraggiose. Donne che parlano. E parlano: inondano di parole.

Karima, figlia di Slimane, ci racconta della sua bambina che non fa la pipì nel vasetto. E poi di uno sciopero alla fabbrica di conserve in cui lavora. Rym ci parla dei figli del padre, dei fratellastri: fa la polemica, si sfoga... Sono dialoghi quotidiani, che ci mettono a conoscenza del più e del meno delle loro vite. La prova delle attrici che recitano questi monologhi è superlativa, del tutto ammaliante. Tutti i dialoghi, di una spontaneità assoluta, suonano perfettamente veri.

Ci si aspetterebbe che Abdellatif Kechiche riprendesse queste scene con dei piani sequenza, o dei campo-controcampo, o delle inquadrature fisse che costringano a concentrare l’attenzione sull’interpretazione. Sono le modalità registiche utilizzate dagli autori che puntano sui dialoghi, sullo script. Kechiche, invece, sceglie di riprendere i dialoghi con un montaggio serrato, frammentario, mobile. I dialoghi diventano sfaccettati anche dal punto di vista visivo: Kechiche enfatizza e moltiplica i primi piani, si concentra sulle espressioni oltre che sui contenuti. Il modo in cui guardiamo chi ci parla cambia di continuo: l’unica costante è un’attenzione irresistibile rispetto alle parole, al modo con cui vengono pronunciate, ai mondi che aprono.

La pellicola, piena zeppa di dialoghi, non rimane quindi un film "solo" di sceneggiatura. La storia di Kechiche incontra il suo stile, perfetto per raccontarla. E ha la fortuna di trovare i volti giusti, facce di attori non professionisti che riescono ad incarnare i personaggi come un attore vero mai sarebbe riuscito a fare, senza bisogno di fingere.

Abdellatif Kechiche, dopo il discreto "Tutta colpa di Voltaire" (2000) e l’ottimo "La schivata" (2004), dimostra con il suo terzo lungometraggio di essere di gran lunga il più bravo fra i giovani registi francesi. L’omaggio alla prima generazione di immigrati maghrebini è del tutto riuscito, affettuoso, non retorico, sincero.

Marsiglia rimane il solito, splendido stereotipo: gli ingorghi di professioni, nazioni, provenienze sociali, qui, sono capaci di creare un vortice fruttuoso. Gli incontri finiscono per aprire dei nuovi campi di possibilità. Il grano e il cefalo si incrociano in un piatto, così come le diversità si avvicinano, e il contenuto e lo stile, le parole e le immagini, i monologhi e le centinaia di primi piani si mescolano sullo schermo in modo straordinariamente felice.

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