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QT n. 2, 26 gennaio 2008 Monitor

“Io sono leggenda”

Dall'omonimo grande romanzo di Richard Matheson, un piccolo film alla moda, velocissimo, con una grande ambientazione in una New York spettrale, e poco altro.

"Io sono leggenda" è il terzo film della storia del cinema tratto dall’omonimo romanzo di Richard Matheson. E’ però il primo ad avere quello stesso titolo: gli altri due si chiamano "L’ultimo uomo della Terra" (Ubaldo Rabona, Italia, 1964) e "1975: occhi bianchi sul pianeta Terra" (Boris Sagal, USA, 1971). Purtroppo, dei tre, il film appena uscito (regista Francis Lawrence, protagonista Will Smith) è quello che ha meno a che fare con la potenza evocativa del titolo. La frase "Io sono leggenda" allude infatti all’aura che ha assunto l’ultimo umano sopravvissuto a una sterminata catastrofe, uno scienziato di nome Robert Neville. Neville diventa leggenda per gli uomini che non sono morti a causa della diffusione del virus ma sono stati da esso trasformati in sub-umani, una mezza via tra i vampiri e gli zombi. Nella versione letteraria, quel che i vampiri sono per noi (una paurosa leggenda) è ora Neville per loro, quando essi sono divenuti la razza maggioritaria che popola il pianeta.

Ma gli umani modificati che si trova davanti Will Smith sono di gran lunga più stupidi degli altri loro colleghi del passato: sono bestiali, irriflessivi, e soprattutto privi di linguaggio. In "Occhi bianchi sul pianeta Terra" gli zombi-vampiri facevano lunghi discorsi, filosofici addirittura: le nuove creature processavano l’ultimo uomo della Terra, accusando lui e l’umanità di una lunga serie di colpe e misfatti. Alla fin fine – è a questo che si allude – l’umanità l’apocalisse se la sta proprio andando a cercare.

Davanti a Will Smith, invece, i sub-umani, persa ogni caratteristica vampiro-zombica, grugniscono e basta. Grugniscono e rispondono a un’esigenza essenziale del cinema di mostri contemporaneo: essere creature digitali che si muovono (e colpiscono) velocissimi. Fanno sicuramente più paura rispetto agli zombi degli anni Sessanta e Settanta, ottusi, prevedibili e lenti. Ma quelli erano interessanti: avevano un mondo alle spalle, delle cose da dire, rappresentavano un’idea di umanità perversa ma alternativa. Francis Lawrence non si prende il rischio di avventurarsi in questi terreni esistenzialisti. Che sono il vero grande motivo di interesse del racconto di Matheson. I sub-umani rimangono, solamente, dei mostri – assai poco notevoli, e mal disegnati. Che bisogno c’era di farli così pesantemente digitali? L’accondiscendenza alle abitudini linguistiche sviluppata dal cinema degli effetti speciali sembra più importante delle necessità narrative.

Anche le altre differenze rispetto alle versioni precedenti restituiscono l’idea di un clima culturale più conservatore. "Occhi bianchi sul pianeta Terra" affibbiava la responsabilità della catastrofe agli esperimenti dell’esercito e all’escalation della ricerca sulle armi di distruzione di massa. "Io sono leggenda" attribuisce invece la causa dell’epidemia a una dottoressa, tale Crippin, che pensava di aver scoperto una cura per il cancro. Nel 2008, inoltre, l’esercito fa degnamente la sua parte per arginare il contagio. Alla fine deve arrendersi alla potenza del virus, ma è incontestabile che le forze armate si adoperino per salvare il mondo. Lo stesso Will Smith è un colonnello. Come gli altri Robert Neville, però, è anche uno scienziato. Anzi, era uno scienziato famoso al punto da finire, come potenziale redentore, sulla copertina di uno degli ultimi "Time" pre-disastro. Nello scantinato della sua casa-fortino in Washington Square, Smith fa esperimenti sui ratti e sui nuovi umani fotofobici.

Di buono c’è una New York spettrale assolutamente affascinante. Will Smith si muove in una metropoli riconquistata dagli animali e dall’erba. Corre in macchina per le avenue. Caccia i cervi.

Spesso, nei film che mostrano personaggi costretti alla solitudine e all’isolamento, gran parte del gusto visivo e narrativo sta nell’osservare come essi trascorrono le giornate. "Io sono leggenda" avrebbe potuto insistere quanto voleva, all’infinito, su questi elementi di coreografia e location semplici ma incisivi. Francis Lawrence, purtroppo, non ha tanta pazienza. Sceglie di fare cinema del suo tempo, ritmico, veloce, con i mostri paurosi. Mentre il bello del romanzo di Matheson sta proprio nel suo collocarsi in un presente mitico, in una dimensione universale che descrive in modo astratto il disagio dell’uomo contemporaneo, solitario, nostalgico, dannato.

Il film con Will Smith, proprio per il suo essere un film alla moda, è inevitabilmente destinato, tra qualche decennio, ad apparire datato. Il racconto di Richard Matheson si posiziona, al contrario, in quel territorio strano dell’immaginario in cui la letteratura di genere occupa, autorevolmente, pertinenze filosofiche. Per questo, rimarrà un grande simbolo, indifferente agli usi che di esso si fanno, pronto, tra dieci o cent’anni, a dare corpo a un altro remake

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