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QT n. 4, 23 febbraio 2008 Monitor

“Il petroliere”

Presentata con magistrale minimalismo narrativo la storia di un uomo che dedica la sua vita alla ricerca del petrolio. Con tutte le cattiverie del primo capitalismo (e delle Chiese fondamentaliste americane).

Due colline nel deserto che sembrano il monte dell’Armageddon. E dopo giù, sottoterra, nel buio, dove vediamo, intravediamo Daniel Day-Lewis che scava le rocce e poi risale su una scala a pioli verso la luce. "Il petroliere" racconta la storia di un uomo che dedica la sua vita alla ricerca dell’oro nero. La trama è tutta qua. Le poche vicende che accadono all’uomo sono solo quello che viene a galla dal fondo di questa ossessione. Anzi, le parti dove succede di più – il finale – si rivelano anche le più deboli, le meno interessanti: "Il petroliere" è un grande film sul niente, sulla sabbia, sulla vanità.

La storia che racconta Paul Thomas Anderson è inframmezzata di esplosioni. Da incidenti sul lavoro, da petrolio che brucia o spruzza in alto nel cielo. Il giacimento, quello che sta sotto, non si vede. Se ne osserva solo questa manifestazione in superficie. La metafora è semplice ma forte: anche l’animo di un uomo è così. Non si capisce davvero cosa Daniel voglia dalla vita. Cosa voglia di fondo, perché in superficie, appunto, è evidente che quel che cerca sono nuove trivelle e ricchezza. Ma non sono cose che riempiono un’esistenza che rimane senza qualità. La mancanza di orizzonti emerge chiara per lo spettatore, che continua a stupirsi per tutto il film di fronte all’insensatezza degli sforzi del magnate. Ma anche il protagonista vive in un tunnel di disperazione, anche se non lo riconosce mai.

E’ raro trovare un film che fornisca così pochi appigli per chi lo guarda. Non li dà il contesto, il paesaggio ostile in cui è ambientata la trama; non li dà la storia, che comunica solo una continua privazione di sentimenti; e non la danno i protagonisti. Nessuno di loro fornisce qualche minima possibilità di identificazione. Daniel, è rude, violento, individualista; il figlio, che già parlava poco, diventa sordo a causa di un’esplosione ed esce dai giochi; Eli è un predicatore, appartenente della Chiesa della Terza Rivelazione, millenarista, ossessionata dal Male. Ci sono poi altre figure, un fratello di Daniel, un proprietario terriero… – tutte minori. Questi soggetti, insieme, compongono un affresco desolato. Non uno di essi riesce a conquistarsi neanche la nostra pietà.

Spaventa l’assenza di personaggi femminili, che di 158’ di pellicola occuperanno, forse, cinque minuti. Quella del petrolio è un’epica nera, e maschile, fatta di uomini che parlano poco, e lavorano: lavoro manuale, duro, sporco.

E’ un film che respira con il ritmo lento e spezzato della trivellazione. Si rivela decisiva la musica di Jonny Greenwood, che ricorda, per la sonorità, per la forza e il peso che ha all’interno del racconto, quella composta da Neil Young per il film "Dead Man". Il chitarrista dei Radiohead non si limita a commentare le immagini ma costruisce sostanza cinematografica egli stesso, predisponendo un sofisticato e raffinatissimo tessuto musicale: ritmo di macchine, accordi non armonici di archi, crescendo e diminuendo, acuti di strumenti a corda che diventano sirene di emergenza.

I temi che il film tocca sarebbero decisamente attuali: il petrolio, la nascita del capitalismo americano, la cattiveria con cui si legge e si interpreta la Bibbia nel Sud degli Stati Uniti. Ma in Anderson è lontana ogni voglia di imbastire allegorie. Il regista racconta una storia, e lo fa con un minimalismo narrativo sorprendente per un’opera di tali dimensioni e portata. Anderson abbandona i virtuosismi narrativi e le invenzioni di "Boogie Nights", "Magnolia" o "Ubriaco d’amore" per concentrarsi sulle singole espressioni di Daniel Day-Lewis, sulle sue rughe.

Nel povero contesto in cui scopre i giacimenti, il petroliere è costretto a confrontarsi e scontrarsi con una Chiesa fanatica, che si pone come contrappunto al magnate, ma non certo dal punto di vista morale o anche moralista che ci si aspetterebbe da una Chiesa. La contrapposizione è tra la razionalità dei soldi e l’irrazionalismo delle formule e dell’abbandono mistico.

Ognuno, ad ogni modo, è concentrato su se stesso: il petroliere ha in mente il petrolio, il predicatore punta al diffondersi della sua fama, il proprietario terriero cerca l’umiliazione dell’avversario tramite la religione…

Anche i fedeli pregano per avere qualcosa in cambio: essere liberati dal Male. Che si incarna, per esempio, in un’artrite. In questa scena di liberazione Anderson dà il meglio di sé: segue in primo piano il volto concitato del predicatore Eli, poi scende a guardare le vecchie mani artritiche della fedele.

Via via che si procede con la liberazione dal male incarnato in quel corpo, la macchina da presa diventa essa stessa il demone: Eli la guarda quasi direttamente e la camera arretra di fronte alle sue parole, indietreggia in modo splendido nel corridoio, esce dalla porta della chiesa... Il successivo stacco ci mostra un primo piano muto e tremendamente espressivo di Daniel Day-Lewis, solo, estraneo e sofferente nell’ombra.

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