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QT n. 7, 7 aprile 2008 Monitor

“Tutta la vita davanti”

Il film di Virzì sul grottesco universo dei call center: una vera commedia all'italiana, con il comico in bilico con il tragico, a raccontare il nostro tempo.

Si continua a sentir dire che il cinema italiano è in crisi, che non sa mostrare l’Italia di oggi né inventare personaggi che non siano alter ego degli autori del film. Si continua a leggerlo nelle cronache dei giornali, anche se le controprove, fattuali, sarebbero sotto gli occhi di tutti: registi come Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Emanuele Crialese o Saverio Costanzo affondano le mani proprio nelle realtà più scomode – le mafie, le discriminazioni, le malattie personali e sociali – con uno stile che riesce ad essere raffinato, rigoroso e rispettoso. Al loro fianco documentaristi come la straordinaria Alina Marazzi o registi (Davide Ferrario, Daniele Vicari) che sperimentano con ottimi risultati il racconto immediato, documentario, della realtà. E poi c’è un cinema come quello di Paolo Virzì, ancora capace di guardare alla società di oggi e alle sue sfighe attraverso il filtro dell’ironia. E’ la qualità che ha reso grande la commedia all’italiana, pertinacemente legata al contesto storico e sociale in cui nasceva. "Tutta la vita davanti" si inserisce in questo filone.

Racconta la storia di una laureata cum laude in filosofia, tesi su Heidegger, che si trova casualmente ad essere catapultata nel modo dei lavori a progetto. Nello specifico, in un call center, con il compito di propinare l’acquisto di una manifestamente inutile macchina per la casa, un robot tritatutto e cucinatutto. La telefonista (femmina) fissa le visite e poi un venditore porta a porta (maschio) si reca nelle case con lo scopo di piazzare il prodotto.

Attraverso lo strumento del grottesco Virzì riesce a mostrare un universo lavorativo del tutto verosimile, basato sulla competizione tra lavoratori, telefonista contro telefonista, dimostratore contro dimostratore. Le dinamiche aziendali che si mettono in moto prevedono agghiaccianti sedute motivazionali, finte relazioni di complicità tra dipendenti e padroni, premi per i vincenti e punizioni per i perdenti. Lo scenario è surreale: venditori che si lanciano in danze maori; un padrone idolatrato e tronfio che si muove in biga; lettere di congratulazioni gigantografate sulle pareti degli uffici... E’ un sistema morboso e orrorifico che davvero aspettava una commedia come questa capace di raccontarlo.

La satira di Virzì è piena di battute felici. Ma possiede una differenza sostanziale rispetto al novanta per cento del linguaggio comico italiano corrente, abusato in televisione e anche nelle sale cinematografiche, specie sotto Natale. La differenza è che Virzì non ha paura di mostrare il tragico. Anzi, lo va a cercare. Questo è il suo bello. Non vuole fare un film comico che liberi dai brutti pensieri. Virzì realizza una commedia all’italiana: mostra situazioni, donne, uomini, il comico della vita in bilico con il tragico. Riesce a bilanciare il dolce e l’amaro. Ed è davvero un modo riuscito per raccontare il nostro tempo.

Tutta la vita davanti" è un film a continua tentazione di musical. Virzì, per una giusta prudenza, non se lo concede, ma molte scene sono proprio da musical, coreografate. Ad esempio la sequenza di apertura del film, quando la protagonista si muove in autobus per una Roma dove si diffonde nell’aria "I get around" e tutti si muovono al suo ritmo solare. Oppure diverse scene all’interno del call center, riprese a campo lungo, un po’ dall’alto, con le telefoniste che cantano e si muovono in sincronia.

La pellicola riesce così a mostrarci in modo molto efficace il mondo di questi lavoratori, a secco di lotta di classe, il cervello pieno di immaginario televisivo, ragazzi e ragazze che si vestono e parlano come personaggi della casa del Grande Fratello, che quando parlano tra loro parlano del Grande Fratello. Ha gioco facile, la filosofa, a richiamare, con la ragazzina cui fa da baby-sitter, il mito platonico della caverna.

Neanche il sindacalista, uno splendido Valerio Mastandrea, riesce a essere tutto d’un pezzo. Anzi, è tutto debolezze. E’ diventato sindacalista perché ha memorie d’infanzia della vecchia classe operaia, che scendeva in piazza unita, il panino con la frittata nel sacchetto di carta. "Anche l’ultimo arrivato - spiega Mastandrea - si sentiva invincibile. Perché lì se toccavano uno toccavano tutti, ed era una sensazione..." "...retorica - completa la frase la protagonista - e anche un po’ patetica...".

Hanno ragione tutti e due: il nostalgico e la realista, il combattente ideologico e la resistente empirica, colui che pretende che il lavoro sia dignitoso e colei che è costretta ad accettarne uno che dignitoso non è.

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