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QT n. 15, 11 ottobre 2008 Monitor

Un diamante nella notte

“L’ora azzurra dell’ombra” di Francesco Dal Bosco

Quando l’anziana testimone ha un breve momento di commozione, la videocamera in mano a Francesco Dal Bosco si allontana di un passo. È un piccolo movimento, solo un passo o due all’indietro. Ma indicativo di una sensibilità talmente intensa da diventare istinto.

Di fronte alle lacrime, l’inquadratura televisiva sta fissa, o a volte zooma, cercando il primissimo piano. Anche un regista di spessore come Mimmo Calopresti, nel suo ultimo documentario sui morti della ThyssenKrupp, indugia per minuti interi su volti rigati dal pianto. Sono scelte che vanno in cerca di un ovvio impatto sentimentale, che tuttavia risulta non solo indifferente al dolore della persona che si ha di fronte ma anche irrispettoso nei confronti della stessa forza emotiva delle parole. Francesco Dal Bosco, invece, ha la prontezza di arretrare. Il fatto che sia un rapido istinto, una scelta sul campo e non in sede di post-produzione, aggiunge valenza morale a questa piccola opzione di regia.

È tutto il tocco che caratterizza "L’ora azzurra dell’ombra", il suo film sulla poetessa trentina Nedda Falzolgher, ad essere così. La storia è delicata come un cristallo, e come tale va presa. È la vita di una donna che scrive versi, costretta in carrozzina sin dall’età di cinque anni, nata nel 1906, morta nel 1956, un’esistenza che si svolge tutta entro i confini di una casa in Via Canestrini, sulla riva dell’Adige.

Dal Bosco si affida a interviste ad anziane (tutte donne) che l’hanno conosciuta – racconti semplici, toccanti. Ci si sposta poi, per un breve inserto, all’interno di una classe dove il professor Alessandro Tamburini – autore dei testi del film – fa leggere e recitare ai suoi studenti le poesie di Nedda Falzolgher, raccomandando attenzione alla sonorità, alla dimensione musicale del verso. È bello vedere un insegnante che comunica ed educa alla passione. Ed è bello sentire come le poesie – almeno così appare – vengano fatte proprie dagli studenti: per una strana collisione, le composizioni di una minuta poetessa del secolo scorso e le pronunce degli studenti di oggi trovano un punto di incontro, da qualche parte, nel mondo delle parole.

Nel vuoto visivo dell’esistenza di Nedda Falzolgher (di lei rimangono meno di una decina di fotografie), Francesco Dal Bosco inserisce dei veloci frammenti: sovrimpressioni di quadri di Van Gogh, volti di tre quarti da Vermeer e dalla storia dell’arte che suggeriscono una singolare e suggestiva parentela con una foto in scorcio di Nedda Falzolgher. E poi brevissimi estratti dalla storia del cinema: piccole sequenze da "L’infanzia di Ivan" di Andreij Tarkovskij, i binari de "Il ferroviere" di Pietro Germi, "Mouchette" di Robert Bresson. E natura: il fiume Adige, foglie, fiori, nuvole, cieli.

Le testimonianze costruiscono significato e racconto, mentre queste inquadrature della natura e delle arti producono l’effetto di spalancare orizzonti. Alla voce di Nedda Falzolgher viene dato tutto lo spazio di espandersi, lieve, e di brillare timida come un diamante nella notte.

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