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La rivoluzione islandese

La “Terra dei sogni”, devastata dalla crisi, cerca di risollevarsi

Roberto Socin
Reykjavik

Si dice che il modo migliore per rapinare una banca sia possederne una; in Islanda questa boutade si è trasformata in realtà lo scorso ottobre. Cosa sia accaduto fisicamente ed economicamente, è difficile spiegarlo senza possedere le necessarie capacità e qualifiche. Di certo, però, erano anni che la nazione dei puffin (i pulcinella di mare, un curioso volatile), delle balene, dell’inflazionato binomio ghiaccio-fuoco si stava, come bolla di vapore e acqua prodotta dai geyser prima dell’eruzione, gonfiando a dismisura, al di là delle proprie possibilità. E, proprio come un geyser, ha finito con l’eruttare: l’enorme bolla che scoppia lasciando una situazione inverosimile, irreale.

Il Paese, nel giro di pochi giorni, s’è ritrovato in ginocchio, con una valuta locale annaspante nei mercati, debiti e mutui in crescita esponenziale e tenori di vita alti, altissimi da riconsiderare, ripianificare, rivedere da capo.

Poi la Rivoluzione, perché così non si poteva andare avanti, perché dei colpevoli bisognava trovarli e chi è più colpevole dei ministri che il crollo hanno permesso?

Un governo provvisorio prima e uno voluto e votato dal popolo poi hanno incoronato, in una nazione che fino a pochi mesi prima sembrava l’incarnazione di capitalismo e finanza creativa, una coalizione di sinistra, che più sinistra è difficile trovare sul mappamondo. In fondo è anche inutile cercare spiegazioni: quando ti ritrovi a fare i conti, per anni, con qualcosa di corrotto, di guasto, è facile poi rigettare il tutto, cercando di scappare il più lontano possibile. E adesso?

Da qualche mese “rimboccarsi le maniche” (come se gli islandesi non fossero già un popolo di stakanovisti) è diventata la parola d’ordine. Come una ricostruzione, come dopo un terremoto. Tutto da capo.

A guardar bene, è quello che è avvenuto: un terremoto finanziario che ha spazzato via, oltre a risparmi di una vita, migliaia di posti lavoro (che su una popolazione di poco più di 300.000 abitanti, è uno scenario apocalittico) e cinque banche (passate sotto il controllo statale per limitare i danni), la credibilità e il rispetto nei confronti di una popolazione che veniva vista come miracolata e allo stesso tempo esemplare.

L’islandese, ricco o “povero” che fosse, si è ritrovato a fare i conti con qualcosa di mai provato, almeno dalla seconda guerra mondiale a questa parte. La kreppa o crisi economica.

È risaputo che, in tempi di crisi, una popolazione si stringe attorno a se stessa: ci si dà una mano, il senso di comunità si rafforza. In Islanda la comunità è un sentimento latente, nascosto ma sempre presente. Tutti, in fin dei conti, fanno parte della stessa grande famiglia: è così che il popolo islandese si vede, non solo per il fatto che nel giro di due o tre ramificazioni genealogiche si finisca con l’innestarsi in un ramo comune. Prova ne è stata la reazione al crollo.

Dopo un periodo di transizione, in cui la gente provava a capacitarsi dell’accaduto e cominciava a farsi qualche conto in tasca (cosa inusuale, in Islanda), la ripresa. Se non economica (per quella bisognerà aspettare il 2011), almeno mentale. Il rimboccarsi le maniche si è fatto uomo; la volontà di passare oltre ha prevalso e l’islandese ha ricominciato a mettersi in moto.

Non dev’essere facile per qualcuno quasi drogato di spendere e spandere ritrovarsi con in mano un pugno di mosche. Possedere una capacità d’acquisto pari a zero o forse anche meno dati i mutui e le rate contratte in passato.

Ma, in fondo, i nipoti dei vichinghi, almeno fino a 60 anni fa, erano abituati a lottare e a scontrarsi contro tutto quanto li circondava: dalla natura agli invasori danesi. L’animo guerriero è stato resuscitato e, allo stesso tempo, la voglia di riscoprirsi la sta facendo da padrona in quest’isola alla deriva economica.

Nonostante un’ombra di pessimismo, dovuta alla non repentina soluzione dei mali del Paese, il “go local” e “consuma islandese!” sembrano i motti fatti propri dal nuovo spirito nazionale e nazionalistico. La voglia d’evadere, che prima portava i vari Sigga, Gunnar, Magnus, Guðrun sulle calde spiagge mediterranee e caraibiche, in villaggi posticci e abbaglianti, ora si è inevitabilmente ridimensionata a una riscoperta della propria (straordinaria) terra. L’islandese alla scoperta dell’Islanda. Potrebbe essere la frase ad effetto campeggiante in ogni agenzia turistica. Stesso discorso per i più semplici consumi. Il “made in Iceland”, per quel poco che può vantare, sta diventando un “must”. Semplici pomodori prodotti in (non tanto) larga scala nelle serre e creme di bellezza provenienti dalla rinomata spa Blue Lagoon stanno soppiantando acquisti esotici e ricercati. Come risvegliarsi da un incubo e rifugiarsi nella propria realtà per superarlo.

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Commenti (1)

Valentino Roiatti

Qualcuno in Italia, vorrebbe prendere ad esempio la rivoluzione islandese, per cambiare le cose qui da noi. Gli islandesi starebbero tutti in un quartiere di Napoli. La nostra realtà non è paragonabile con quella degli islandesi.
Valentino Roiatti
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