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QT n. 2, febbraio 2010 Monitor: Cinema

Avatar

Quante D in emozione?

È fatto apposta per piacere ed è proprio difficile che non piaccia. Avatar è un kolossal costruito per offrire un’esperienza visiva completamente nuova. E ci riesce, anche se lo si guarda in 2D: la profondità di campo regala agli occhi uno sguardo lucido su ogni piccolo dettaglio: tutto è definito, dai primi piani dei volti alla felce mossa dal vento sullo sfondo. Al di là dei prodigi tecnologici, la trama si sviluppa su uno spunto esile esile, già visto mille volte. Dopo dieci minuti di film si sa tutto: come evolverà il plot, quali saranno i “colpi di scena” e quindi anche, inevitabilmente, il finale. Non è certo la storia, infatti, il motivo di attrazione di Avatar. Quello che affascina è l’immersione in un mondo fantastico, in cui produzione e tecnica rincorrono una fantasia sbizzarrita per servirla e accontentarla. Il gusto della costruzione dei colori, dall’estetica fantasy, offre allo spettatore una gamma cromatica che in tale ampiezza non si era mai vista in un singolo film.

Avatar, però, non è un fantasy, perché aggancia a questo genere una serie di suggestioni provenienti da altri stili. Una caratteristica del film di James Cameron è infatti quella di continuare a sommare influenze, tracce, suggestioni. Anche andando in cerca di letture socio-politiche, si è costretti ad attribuire al film riferimenti a (più o meno) tutte le guerre (più o meno) coloniali condotte dagli Stati Uniti. Di sicuro c’è l’Iraq (la colonizzazione di un pianeta al fine dello sfruttamento delle sue risorse naturali) e di sicuro c’è il Vietnam - mediato attraverso “Apocalypse Now”, nella scena degli elicotteri che spandono fuoco e morte. Ma c’è anche la colonizzazione interna degli spazi del West, a discapito di nativi che, loro sì, conoscono e amano quella terra.

Tutte queste caratteristiche non fanno di “Avatar” un film “ideologico”: un kolossal non può permettersi di scontentare nessuno, e quindi i riferimenti ai valori (chi più ne ha più ne metta) si fondano su un generico ambientalismo (impossibile non condividerlo), sull’elogio della conoscenza e della diversità, sul rispetto per la vita. Perché il messaggio sia incontestabile occorre calcare un po’ la mano sui cattivi: i militari, veramente truci, e gli interessi economici che finiscono per servire.

I valori, quindi, ci sono. La trama occorre farsela bastare. Lo strumento con cui “Avatar” conquista è quello che in modo tradizionale e ingenuo viene da sempre collegato al racconto per immagini: semplicemente, l’emozione, che non ha né due né tre dimensioni ma molte, molte di più.

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