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Shutter Island

Un thriller imperfetto

Chi ha seguito Leonardo Di Caprio sulla Shutter Island sa che le cose non stanno come sembrano. Il caso, in effetti, sin dall’inizio appare strano: perché un ispettore dell’FBI dovrebbe essere mandato su un’isola che ospita un manicomio criminale, con la sola assistenza di un vice, per indagare sulla fuga di un’internata? Più ci si avvicina alla verità, più essa appare inafferrabile.

Dopo diverse prove fiacche (almeno nella fiction: i suoi documentari sono rimasti splendidi), Martin Scorsese è riuscito a costruire un thriller non perfetto, ma teso e avvincente. Lo ha fatto mescolando il suo stile - dove ogni componente tecnica dei mestieri del cinema (movimenti di macchina, montaggio, fotografia, recitazione...) è impeccabile - con una sorta di aggiornamento allo spirito (cinematografico) dei tempi. Scorsese trasuda storia del cinema, e anche in Shutter Island i riferimenti ai classici (in particolare Il corridoio della paura di Samuel Fuller e Io ti salverò di Alfred Hitchcock) sono evidenti. Ma a questa base, Scorsese sembra aggiungere diversi ingredienti del cinema post-moderno che vengono comunemente associati a nomi come quelli di M. Night Shyamalan (Il sesto senso), Christopher Nolan (Memento) o Alejandro Amenabar (The others). Insomma, una componente di enigma, di mistero e di menzogna, con svolte e colpi di scena che spingono a rileggere il film, a quanto si è guardato sino ad allora. Francamente, sono giochi che non stanno pienamente nelle corde di Martin Scorsese, un regista che dà il suo meglio nella narrazione larga, non in quella dominata dagli angoli ciechi. Ma diverse scelte di soggetto sono davvero efficaci, in particolare quella di abbinare il tema dell’istituzione-totale manicomio con l’autosufficienza di un’isola battuta dalle tempeste.

I dubbi più grossi riguardano il finale (lo spoiler contenuto nelle prossime righe sarà il più astratto possibile): il film sembra voler chiudere spiegando tutto, lasciando la trama sgombra di ipotesi alternative, dandoci la chiave per ripercorrere il già visto senza abbandonarci in preda ad amletici dubbi alla Lost. Questa chiusura, che si (e ci) schiera completamente dalla parte dell’istituzione contro l’individuo, risulta pesantemente ideologica, fastidiosamente consolatoria. Si poteva permettere che lo spettatore uscisse dal cinema con qualche congettura nella testa in più. Cosa che, parlando all’uscita dalla sala, nei fatti peraltro avviene. Al di là della volontà di Martin Scorsese, che sembra fare di tutto per sconsigliarcelo.

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