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QT n. 7, luglio 2010 L’editoriale

Chi paga? Il welfare

È la crisi economica, in primo piano o sullo sfondo, il ricorrente tema del dibattito; ma soprattutto la spada di Damocle sulle condizioni di vita di tante persone. Per questo ci discostiamo dall’approccio che ad essa ha dato l’ultimo, peraltro molto pregevole, Festival dell’Economia, incentrato sui rapporti tra economia, informazione e quindi democrazia. Secondo noi il tema attuale è un altro, e dirompente: il rapporto tra crisi ed equità sociale.

Sotto i colpi della crisi infatti, in diversi paesi viene attaccato il welfare, vengono ridisegnati i rapporti sociali, con un evidente aumento delle disuguaglianze. Ha impressionato la ricetta greca per il rientro dal debito: tagli pesantissimi a salari e stipendi, riduzione drastica di posti di lavoro; e al contempo nessuna tassa patrimoniale, nessun cenno a rientri da un’impressionante evasione fiscale. La ricetta italiana, pur molto meno cruda in quanto di fronte a esigenze meno drammatiche, segue la stessa filosofia: il berlusconiano “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” (gli italiani benestanti) è devastante, in quanto implica una demonizzazione della tassazione come correttivo delle iniquità, e dalla sempre timida opposizione non viene contrastato in quanto tale, ma perché non viene nei fatti praticato. E se in altri paesi, a iniziare dalla Germania, sono state varate significative tassazioni su patrimoni e operazioni finanziarie, pur tuttavia il pensiero dominante sembra essere: “Non potremo più permetterci il nostro welfare”.

E qui non ci siamo: perché mai, se la crisi e la globalizzazione (cioè la nuova redistribuzione della ricchezza a livello mondiale) impongono i mitici sacrifici, questi devono avvenire a livello della sicurezza sociale? Perché devo rinunciare alle cure ospedaliere invece che all’ultimo cellulare alla moda? Per via del Pil? I medici non generano Pil, la produzione di gadget sì? Ma che razza di visione economica è mai questa?

Eppure un anno e mezzo fa, al primo sorgere della crisi, ben diverse erano le analisi e le soluzioni: “Scaricare il rischio economico, cioè la crisi, sul lavoratore, è non solo ingiusto, ma anche sbagliato, porta con sé impoverimento, contrazione dei consumi, e quindi un aggravarsi della crisi” - ci diceva a dicembre 2008 Enrico Zaninotto, già preside a Economia a Trento; e così pensavano tanti altri suoi colleghi, in Italia e all’estero. Oggi invece si va in direzione opposta, attaccando il welfare ed estendendo anche in Italia i non-diritti dei lavoratori dell’Est. Bene fa la Cgil a resistere: ma appunto di resistenza si tratta, su conquiste che avremmo voluto considerare acquisite.

In Trentino tutto ciò ci è stato in gran parte risparmiato: dall’Autonomia, i suoi soldi, la capacità di spenderli correttamente e la sensibilità sociale che al centrosinistra al governo vanno riconosciute. Eppure è facile prevedere che i problemi nazionali si possano riproporre anche da noi. Alla recente assemblea della Cooperazione, Lorenzo Dellai è stato chiaro: lo scenario “è preoccupante”, il Trentino deve decidere se andare avanti, o galleggiare in una mediocrità insicura. Solo che a noi è la ricetta proposta dal Presidente della Giunta ad apparire preoccupante: sacrifici, cioè tagli alla spesa corrente, per investire di più.

Qui ci sembra caschi l’asino: in questa scolastica (e, come vedremo, interessata) divaricazione tra spesa corrente (stipendi) cattiva, e spesa in conto capitale (investimenti) buona. È appunto un esempio di scuola il peso di un bilancio fatto di stipendi a un apparato burocratico gonfiato dalle assunzioni clientelari, e per converso la produttività di investimenti in infrastrutture. Ma venendo al caso concreto, al Trentino, questo approccio risulta fasullo, in quanto gli sprechi si annidano soprattutto in investimenti fittizi, pretestuosi. Siamo infatti la terra delle maxi-caserme per i Vigili del Fuoco in ogni paesino, dei Palacongressi inutilizzati, delle tangenziali che vengono spostate sull’autostrada e l’autostrada in galleria, del nuovo ospedale quando il “vecchio” non è ancora ultimato, della nuova stazione internazionale quando la “vecchia” è un gioiello e treni internazionali non ce ne sono. Che senso ha costruire nuovissimi edifici scolastici, e poi risparmiare sul numero di insegnanti, allestire costosi laboratori e tenerli chiusi per non spendere in assistenti tecnici? Costruire ogni trent’anni un nuovo ospedale e lesinare sulle infermiere?

In realtà il senso c’è. Dellai (e chi lo ha preceduto) hanno sempre avuto tra i loro grandi elettori la lobby dei costruttori, che dev’essere tenuta buona con un pacchetto annuale di centinaia di milioni di euro. Ma c’è di peggio: dietro c’è l’idea che questa sia l’economia, che le imprese assistite siano il cuore del sistema produttivo. Verso il quale, negli anni magri a venire, andranno dirottati i proventi da “sacrifici”, ci dice il Presidente.

Male. Su questa visione a nostro avviso Dellai denota una grave, imbarazzante arretratezza che può far male al Trentino. Sarà bene che se ne inizi a dibattere.