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Idiotas

Sei ore di teatro

Si può far dell’umorismo facile, raccontando agli amici che si è andati ad assistere a uno spettacolo teatrale della durata complessiva di 6 ore, con 3 intervalli, in lingua lituana con sopratitoli in italiano, tratto dall’«Idiota» di Dostoevskij; ci siamo andati volontariamente: a chi si riferisce, dunque, il titolo? Per sgombrare subito il campo dagli equivoci, diciamo allora che l’unico vero difetto dello spettacolo messo in scena da Eimuntas Nekrosius è la durata. Qualunque drammaturgia che si rivolga a comuni mortali paga lo scotto degli alterni picchi di attenzione/disattenzione/noia, se supera le due ore, tre-quattro per i più resistenti: dopo di che ci si chiede a che pro allestire una maratona di tal genere, per scelta. Chi entra a teatro, peraltro, è avvisato; lamentarsene non vale. Tuttavia, la prolissità-per-scelta finisce per entrare con un certo peso e a ragione in un giudizio estetico e critico minimamente sincero; del resto, de gustibus non disputandum est: all’uscita c’era chi senza riserve si dichiarava compiaciuto e contento.

Ciò precisato, non si può negare che il regista lituano, sempre favorito dall’eccellente manipolo di attori della compagnia Meno Fortas, ha confermato la propria capacità di rendere efficace una lettura teatrale (qui anche un adattamento) e potente ogni gesto, passo, movimento o detto realizzato dai suoi attori. La materia dostoevskiana suggerisce e fomenta l’intensità drammaturgica, nel rappresentare in modo equivalente la forza del Bene e quella del Male. Va detto che, nel romanzo, i personaggi femminili forse non appaiono così egemoni e dittatoriali come nel testo messo in scena da Nekrosius, in cui gli uomini sembrano invece letteralmente in balia dei sentimenti e dei voleri femminili. Il repertorio quasi coreografico di reiterazioni gestuali - non di rado triplette di movimenti identici che ricordano il teatro-danza di Pina Bausch - evidentemente motivato dalla volontà di ostentare azioni intese come stereotipate, routinarie, di fredda e forse stanca passionalità, nell’arco di sei ore si rivela monotono, induce assuefazione e suscita capacità predittive nel pubblico, come invitandolo e invischiandolo in una co-regia suggerita subliminalmente.

La serialità dei movimenti, nevrotici quanto “innocenti”, trova riscontro in una scenografia composta da una decina di lettini in ferro battuto, ora usati come culle per un impossibile ritorno intrauterino, ora come scomode panchine per inconcludenti appuntamenti amorosi. Immancabile, nel teatro di Nekrosius, lo scorrere dell’acqua, segno probabile di un riferimento “alto”, alla purezza e all’innocenza, integrato dal simbolo dello specchio, in cui la doppiezza dell’immagine rende conto dell’ambiguità dei sentimenti e delle azioni, in lotta tra il Bene e il Male: al centro dello sfondo si spalanca di continuo una porta sospesa e talora oscillante, diaframma verso un altrove che non riesce a impedire ai personaggi di ritornare sempre e comunque nello spazio claustrofobico della scena, finché la tragedia non sia compiuta, finché non ne sia consumato anche l’epilogo.