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“L’eredità”

Del danese Peter Fly, "L’eredità" racconta il capitalismo dei tempi della globalizzazione attraverso la saga di una famiglia di industriali. Nuovo anche lo stile: quello povero di Dogma 95 (la scuola di Lars von Trier) ma meno estremo, ammorbidito e reinterpetato.

"L’eredità", film danese di Per Fly, racconta la storia del figlio di un magnate danese dell’acciaio. Cristoff, l’ereditiere, vive all’estero, a Stoccolma, dove gestisce un ristorante di lusso, lontano dalla grande fabbrica e dagli affari di famiglia. Un giorno il padre si impicca, ucciso dal fallimentare bilancio della sua vita e della sua industria, oberata dai debiti, ricattata dalle banche, obbligata ai licenziamenti. A quel punto Cristoff è costretto a tornare in Danimarca per occuparsi dell’acciaieria.

La cosa migliore del film di Per Fly è la sua capacità di coniugare un punto di vista interno, vicino ai personaggi, con la scelta di una sguardo ampio, consapevole di un’epoca in cui altri autori (Thomas Mann, Orson Welles, Luchino Visconti…) erano capaci di raccontare interi periodi della decadenza di un’industria e di una famiglia (gli Hanno, gli Amberson, gli Essenbeck…). La storia di Cristoff è molto più della tragedia privata di una persona condannata a comandare. La sua vicenda si porta sulle spalle il peso delle grande narrazioni costruite attorno a un gruppo umano che vede sgretolarsi i simboli del proprio prestigio e si trova espropriato della gestione del patrimonio.

Se il tema del film, il tracollo delle grandi industrie nazionali e familiari, è così vasto, ambizioso ed evidentemente di attualità, ancora una volta è lo stile, il modo in cui è girato, a tener lontano il film da tutti i rischi che corre un’opera come questa: la pomposità, la magniloquenza, la serialità televisiva, la facilità da instant movie.

Da un film danese ormai ci si aspetta, e "L’eredità" non delude, adesione alle politiche di Dogma 95 (il collettivo di registi fondato a Copenhagen nel ‘95), quel modo povero di fare cinema che ha inventato Lars Von Trier (vedi "Dogville"): camera a mano, niente luci, niente trucchi, niente musica…

"L’eredità" non è un film marchiato Dogma 95, perché non ne ha l’ortodossia: nei titoli di testa c’è il nome del regista, ci sono musiche estranee all’andamento narrativo, ad un certo punto la macchina da presa è su un elicottero, per seguire dall’alto il tragitto dell’auto del padrone dentro l’enorme stabilimento industriale. La drasticità delle scelte di Dogma è dal regista Per Fly re-interpretata, ammorbidita, adattata all’esigenza primaria della costruzione del racconto. Nonostante le deviazioni dal Dogma, infatti, questo è un cinema che continua a rimanere povero, non patinato. In questo modo, il racconto riesce a penetrare intimamente anche le psicologie più lontane: il grande mondo della finanza internazionale si trova a essere legato al destino di un matrimonio, alla felicità di un uomo, all’impossibilità di una ricerca affettiva in un contesto schiacciante che la bandisce.

Del capitalismo e delle sue implicazioni familiari, il film presenta due nuclei, uno "classico", l’altro che è una novità dell’era della globalizzazione. Il tema classico è quello dell’impossibilità di essere all’altezza dei genitori e di vivere l’industria come una carica dinastica. Eredità è patrimonio ma anche e soprattutto condanna. Costretti all’eredità, si entra direttamente nel dramma: non si riuscirà mai ad essere all’altezza di chi è venuto prima. Anche da noi, l’elegante, glaciale, potente capitalismo di Giovanni Agnelli si specchia ora nell’inadeguata caricatura del fratello Umberto. Antonio Albanese, nel suo spettacolo "Giù al Nord", riassumeva tutto questo tragico in una battuta comica: "Mio nonno ha fatto il capannone piccolo, mio padre il capannone grande, io il capannone grandissimo. Mio figlio si droga. Ha capito che non riuscirà mai a fare un capannone più grande del mio".

Il tema "nuovo", il racconto del capitalismo dei nostri giorni, mostra invece un’altra impossibilità: quella di essere protagonisti di questo sistema continuando a rimanere persone. Gli esseri umani sono estromessi dalla gestione della nuova economia. I cambiamenti nelle regole del gioco del capitalismo lo de-personalizzano, non lo rendono più identificabile con una famiglia o una classe sociale. Nel film, al di fuori dell’interno alto-borghese, quando si vedono gli operai è solo dall’alto di una balaustra: la famiglia, dieci metri sopra a quella massa, comunica ai propri dipendenti la morte del magnate, le fusioni, i cambi al vertice. Di questa moltitudine operaia si rende riconoscibile solo una persona, l’operaio fedele, affezionato all’impresa. Verrà licenziato anche lui, ma gli operai, in questo, non sono più soli: il capitalismo non risparmia nessuno. Anche i dirigenti saranno falcidiati e sostituiti, manager usa e getta nel vortice delle creazioni di colossi multinazionali. Il mondo dell’economia e della finanza funziona ormai da solo, per autodeterminazione, senza bisogno di aristocrazie e di grandi famiglie.

"L’eredità" è un film che trova dunque la sua riuscita nella capacità di conciliare pulsioni opposte: la vicinanza ai personaggi e la narrazione ampia, l’attualità e il respiro storico, i meccanismi ereditari e la loro dissoluzione nella morsa del capitalismo di oggi.

Se pensiamo a come il cinema italiano avrebbe potuto rappresentare un argomento del genere, è facile capire quanto questo regista danese abbia fatto delle scelte di messa in scena davvero importanti: Fly ci racconta questa storia lasciandoci andar via con la sensazione che potesse essere raccontata solo così.

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