Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 22, 22 dicembre 2006 Scheda

Eutanasia: the show must go on?

Il cinema, la morte in ospedale

"Le invasioni barbariche” (Denys Arcand, Canada/Francia, 2003) e “Mare dentro” (Alejandro Amenabár, Spagna, 2004) sono due film recenti che trattano il tema dell’eutanasia. Hanno avuto molto successo, creato dibattito, segnato le coscienze. Sono film che mostrano morti desiderate, dignitose, belle. All’interno del dibattito, tirando i conti, il punto di vista che esprimono è tra quelli a favore dell’eutanasia. Lo spettatore è portato ad essere felice di fronte all’esito del film: che è la morte, pur dolce, di un personaggio con cui si è identificato durante tutta la narrazione.

L’opinione pubblica, sul problema, sembra essere profondamente divisa. Ci viene da chiederci a questo punto perché nessuno prova a realizzare un film che mostri l’altro punto di vista: un film contro l’eutanasia, che sia in grado di sfruttare, anche dall’altra prospettiva, il coinvolgimento emotivo della narrazione per immagini.

Film anti-eutanasia in effetti non ce ne sono. Si può certo pensare che l’arte sia più avanti rispetto alla politica o alla società. Che l’industria del cinema sia in larga parte progressista. Che lo spettatore di film dalla tematica impegnata sia portato a cercare pellicole in cui il tema dei diritti è visto dal suo versante più laico. E’ vero anche che nemmeno altre tematiche controverse sono rappresentate in tutte le posizioni – non ci sono film a favore della pena di morte, o anti-abortisti... C’è della ragione in tutte queste motivazioni.

Ma riteniamo che prima di tutto a livello di comunicazione visuale una storia contro l’eutanasia, semplicemente, non sia rappresentabile. A fianco, ma in modo subordinato, ci sono sicuramente delle ragioni narratologiche, che proviamo a descrivere abbozzando due schemi di trama per un film contro l’eutanasia.

1. Un malato terminale riflette tra sé sulla possibilità dell’eutanasia. Ne discute con i parenti. Si crea un dibattito. Quando lui e le persone a lui vicine hanno deciso per l’eutanasia, succede qualcosa alla salute del protagonista che lo porta a netti miglioramenti. Ad alzarsi dal letto.

2. Un malato terminale discute della possibilità dell’eutanasia. Lungo dibattito. Alla fine, pur tentato, il malato sceglie di vivere. Il film può concludersi così, con un primo piano del malato che sorride. Oppure può proseguire, fino a mostrare una morte “naturale” dignitosa.

“All that jazz”

Le possibilità per l’esito del film sono infatti due: il malato guarisce oppure muore. Il primo caso, la guarigione, è una soluzione narrativa che non funziona. Non può che suscitare perplessità nello spettatore. A meno che il film vada a finire in territori di fantascienza para-normale, come “La zona morta” (David Cronenberg, USA, 1983), in cui un uomo si sveglia da cinque anni di coma e si scopre capace di vedere nel futuro. Ma bisogna, appunto, abbandonare il realismo ed entrare nel fantastico.

Il caso da analizzare è il secondo. Perché si è costretti a ragionare sulla rappresentabilità di una morte così concepita – una morte che si annuncia da lontano, che giunge dopo una lunga sofferenza.

Abbiamo di fronte, sullo schermo, un morente su un letto da ospedale, intubato, tenuto in vita da macchine, sfiancato dalla malattia.

Sta qui il problema visuale: non si riesce, in circostanze come questa, a mostrare una morte, o un momento della morte, visivamente presentabile. Come si fa a farla sembrare un lieto fine? E quindi: come si fa a fare un film anti-eutanasia?

Le morti accettabili, visivamente dolci, sono quelle eutanasiche. Quella di Rémy, ad esempio, il professore de “Le invasioni barbariche” che viene aiutato a morire. Alla fine di un film pettegolo, irriverente, sboccato, il regista gira la scena della morte così: il protagonista è su un lettino a rotelle, nel prato della sua casa sul lago. Viene lasciato solo da amici e parenti, che lo spiano da una finestra lontana. Il momento della morte è anticipato da un flash ironico: il protagonista, nella sua testa, rivede qualche fotogramma di un film su Maria Goretti, oggetto di tante masturbazioni quand’era ragazzo. Ora c’è il volto di Rémy in primo piano. Poi la macchina da presa stacca, inquadra gli alberi che Rémy ha di fronte. La morte è segnata da questa semi-soggettiva: una panoramica verticale che dagli alberi sale verso il cielo. Un movimento ascensionale, semplicissimo, che sarebbe forse stucchevole in un film meno disincantato. E invece qui dà l’idea di un coinvolgimento, di un arioso sollievo. La morte di Rémy scopre un sorriso nel volto degli spettatori.

Va aggiunto che l’eutanasia “fotogenica” è quella diretta e volontaria, cioè quella che vede il morente decidere direttamente e volontariamente sulla sua morte. Le altre eutanasie, quella indiretta volontaria (il paziente chiede di essere lasciato morire, ma senza un intervento diretto) e quella indiretta involontaria (in cui il morente non è cosciente e la cessazione della sua vita è decisa da altri) non si prestano a essere guardate.

Per trovare una morte in ospedale capace di riempire il cuore e lo schermo bisogna cercare un regista con la creatività di Bob Fosse. Un autore di musical. Quella di “All that jazz” (USA, 1979) è una delle morti in ospedale più belle che si possano vedere in pellicola. Le curve dell’elettroencefalogramma suggeriscono sul letto di morte al protagonista – Joe Gideon, coreografo, ballerino e regista – l’idea per un ultimo show: assistiamo a un balletto che coinvolge tutte le persone importanti della sua vita. Si canta una canzone, “Bye-bye life”. Alla fine Joe carrella in avanti verso una bella signora vestita di bianco. C’è un primissimo piano dei suoi occhi e poi uno stacco. Un’infermiera chiude la zip della tela cerata che avvolge il suo cadavere.

L’ultimo balletto è un rifiuto. Il regista non vuole guardare con serietà e tristezza al momento della morte. Questo rifiuto passa attraverso un elogio del kitsch, con tanto di ballerini in costume venoso-arterioso. Il finale – la tela cerata – sfida le regole dello spettacolo, che prescrivono: the show must go on. E’ quel “must” a infastidire. A volte è più bello quando lo show finisce.