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“Io non sono qui”

La vita di Bob Dylan in un film che incrocia in modo splendido immagini, musica e dialoghi, intrecciando biografia e testi delle canzoni.

E' già uscito nelle sale “Io non sono qui” di Todd Haynes. Ne approfondiamo alcuni dei conte- nuti, visto che la pellicola lo merita. Il film è una strana biografia di Bob Dylan, interpretato, nelle varie fasi calde della sua storia artistica e personale, da sei attori diversi, tra cui un bambino nero e una donna. Il film è complesso, sfaccettato, forse difficile per chi non conosce da prima i dati storici della biografia di Dylan. Riesce tuttavia a creare un fascino che non richiede nozioni pregresse quando incrocia in modo splendido immagini, musica e dialoghi, con un occhio che guarda alla vita di Dylan e uno che guarda, costantemente, ai testi delle sue canzoni. Il film trova così dei momenti di riuscita artistica assoluta.

Uno di questi avviene quando il regista mostra il giovane Dylan che va ad omaggiare, in ospedale, all’inizio degli anni Sessanta, il suo mentore Woody Guthrie. La storia racconta che Guthrie, il vecchio cantore dell’America rooseveltiana, giaceva malato, dimenticato, in un ospedale newyorchese. E che il giovane, sconosciuto Dylan lo andava a trovare portando con sé la chitarra. Nella sua autobiografia, “Chronicles. Vol. 1”, Dylan descrive così le sue visite: “Woody mi chiedeva sempre di portargli sigarette. Sigarette Raleigh. Di solito passavo il pomeriggio a suonargli le sue canzoni. Certe volte era lui che mi chiedeva questa o quella, Ranger’s Command, Do Re Mi, Dust Bowl Blues, Pretty Boy Floyd e Ballad of Tom Joad, la canzone che aveva scritto dopo aver visto il film Furore. Quelle canzoni le sapevo tutte, e anche molte altre. Woody non era molto considerato in quel luogo che peraltro era poco indicato per incontrarvi chiunque, meno che mai la vera voce dello spirito americano. In realtà si trattava di una clinica psichiatrica, e non lasciava speranza a chi vi entrava. Si sentivano lamenti nei corridoi, la maggior parte dei pazienti indossava uniformi a strisce della misura sbagliata, e mentre io suonavo le canzoni di Woody file di ricoverati entravano e uscivano senza meta. […] Lo spettacolo era poco rassicurante, ma Woody Guthrie non ci badava affatto. Un infermiere di solito lo portava fuori da me e dopo un po’ che ero lì lo riportava via. Era un’esperienza che faceva passare i grilli per la testa, e psicologicamente ti prosciugava”.

Todd Haynes sceglie di rappresentare questo mo- mento così: l’attore che interpreta il giovane Dylan è un bambino afroamericano. Lo si vede suonare la sua chitarra a fianco di un Guthrie incosciente nel letto. La scelta che crea attorno a questa scena un alone di magia o persino di commozione è quella della canzone in colonna sonora. Sopra queste immagini, si ascolta Bob Dylan che canta una delle sue canzoni più intime e misteriose, “Blind Wille McTell”, incisa nel 1983 per comparire nell’album “Infidels” ma poi lasciata fuori dal disco, inedita, scartata. E’ solo una delle innumerevoli decisioni inspiegabili e spiazzanti, apparentemente sbagliate, prese da Dylan nella sua carriera. Forse quella canzone somigliava troppo a “St. James Infirmary”, un blues in minore dalle ascendenze lontane; forse non si legava, come tessitura, alle altre di “Infidels”. La canzone è stata poi pubblicata ufficialmente nel 1991 in una raccolta che si intitola “The Bootleg Series voll. 1-3”.

Le risonanze che produce questa canzone in colonna sonora sono dovute al fatto che, mentre vediamo un bambino nero (il Dylan personaggio) che suona per un anziano bianco (uno dei padri della musica popolare americana), ascoltiamo un quarantenne bianco (il Dylan vero) che suona una canzone in onore di un vecchio bluesman nero degli anni Trenta, appunto Blind Willie McTell.

Il testo della canzone, straziante, vede un io narrante che riflette sulle immagini di desolazione e sui presagi di apocalisse rinvenuti nel paesaggio e nelle città dell’America, una terra condannata, abbandonata da un Dio indifferente. Anche il narratore della canzone canta da un hotel che è forse un ospedale. Quando guarda fuori dalla finestra vede solo “potere, avidità e semi di corruzione”. Il cantante si rivolge così a Blind Willie McTell, evocando in lui una grazia definitivamente perduta: “Nobody can sing the blues like Blind Willie McTell”.

L’incrocio fra tradizioni, tra presente e passato, tra America bianca e America nera, risplende in questa sovrapposizione filmica tra storia biografica, immagini e musica. L’America che sa cantare il blues, dice Dylan, non esiste più. Mentre Dylan canta, Todd Haynes ci mostra un’altra America che non esiste più, quella di Woody Guthrie, del suo ultimo erede Bob Dylan, quella di incontri drammatici e fuori dai riflettori tra artisti che, bianchi o neri, hanno la capacità di toccare il polso di un popolo, per poi riuscire a cantarlo.