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“Il figlio”

Un film che ricorda il neorealismo, per sincerità, tensione morale, scelte tecniche e stilistiche. Dei fratelli belgi Dardenne.

Olivier lavora come capo-falegname in una fabbrica che si occupa del reinserimento professionale di ragazzi usciti dal riformatorio. La sua vita è solo lavoro. Seguiamo Olivier a casa, non si toglie mai la tuta blu e il cinturone con le tasche per gli attrezzi. Una casa desolante, un’ex moglie, fagioli in scatola, solitudine, di nuovo lavoro.

Dopo qualche minuto, ci accorgiamo di come la macchina da presa stia sempre sulla nuca di Olivier. Lo segue, lo accompagna, non si allontana. Gli sta addosso. Siamo dentro l’ultimo film dei fratelli Dardenne, "Il figlio".

Capiamo presto la ragione del fallimento personale di Olivier. Un giorno entra in fabbrica un ragazzo nuovo: è questo minorenne biondo, Francis, sensibile e pauroso, ad aver rovinato la vita di Olivier; gli ha ammazzato il figlio, cinque anni prima. Olivier decide di prendere sotto la sua protezione, come apprendista, l’assassino di suo figlio.

"Ti sto con il fiato sul collo"; "Mi è capitata tra capo e collo"… Sono modi di dire che chiamano in causa la nuca, e la eleggono a parte del corpo debole, indifendibile, facilmente predabile. Così i Dardenne la inquadrano, la studiano, ne seguono i movimenti. E noi, spettatori, siamo costretti a stare alle spalle del falegname, siamo il suo sguardo, appena due passi dietro la nuca, quella parte che anche le armature lasciano scoperta, vulnerabile.

Eppure la nuca di Olivier sopporta tante cose: il peso delle travi, lo sforzo delle flessioni... Il film si chiede se quella nuca riuscirà ad assorbire anche il vulnus peggiore, quello della morte di un figlio. Assorbire, per poi provare a perdonare: questo gesto così difficile, questa sfida a una parola masticata dalla retorica. In particolare, dell’atto del perdonare vengono indagati due sviluppi, sulla cui possibilità o impossibilità il film si interroga: trasformare il perdono in "redenzione" e perdonare senza far pesare il proprio perdono. Questa prova di Olivier ha molto di fisico, come tutti i suoi gesti quotidiani: il suo corpo entra in gioco sempre. Lo vediamo in azione: un corpo che lavora, ed elabora.

Un po’ alla volta ci rendiamo conto di come certe cose, al cinema o in tv, non le vediamo mai: il lavoro, quello vero, manuale, non i soliti cinque-sei lavori intellettuali che fanno i protagonisti delle fiction. Non vediamo mai neppure gli strumenti di quel lavoro, seghe, legno, cacciaviti. Sembra di veder rinascere il cinema, a guardare su uno schermo Olivier e Francis che montano una cassetta degli attrezzi.

E’ un modo assolutamente non patinato, e ormai desueto, di guardare alla realtà. In termini tecnici, lo sguardo che ci offre la cinepresa è una semi-soggettiva. I Dardenne sembrano aver trovato la quadratura del cerchio, nel coniugare visione del personaggio e identificazione dello spettatore: Olivier è il lavoro che fa, e noi siamo lui perché lo guardiamo lavorare.

Per il rapporto con gli attori (Olivier è interpretato in modo prodigioso da Olivier Gourmet, miglior attore a Cannes 2002), la compassione, lo sguardo realistico, la critica ha scomodato i nomi di Bresson e Rossellini.

Jean-Pierre e Luc Dardenne sono due fratelli belgi, cinquantenni. Vengono dal documentario, ma dal 1996 hanno girato tre lungometraggi premiati ai festival. Se i due precedenti film, "La promessa" e "Rosetta", risentivano in parte dello sforzo, visibile, compiuto in termini di impegno sociale e politico, con "Il figlio" i Dardenne hanno risolto il problema del distacco/vicinanza del narratore rispetto ai personaggi e alla storia, raccontata attraverso questo uso preciso e consapevole del linguaggio cinematografico.

Non sono infatti le parole, né la storia, a fare il racconto: la sua sincerità, la sua tensione morale derivano proprio e solo da questa scelta tecnica e stilistica dei primissimi piani. Quando la macchina da presa, per qualche attimo, si allontana dalla nuca di Olivier, ci viene un senso di nostalgia.

A metà pellicola, Olivier e il suo apprendista si fanno male. A raccontarlo sembra banale, ma si fanno male proprio alla nuca: se la tengono con entrambe le mani. La tesi è svelata. E’ sulla nuca che si accanisce il rimorso, della vittima e del carnefice.

Con i suoi cambi di fuoco che fanno diventare paesaggio interiore anche le pareti della falegnameria, la camera a mano dei fratelli Dardenne sta sempre lì, presenza, interrogativo senza risposta. In uno snodo del film, l’ex moglie, venuta a conoscenza del rapporto fra Olivier e Francis, dice all’ex marito: "Nessuno lo farebbe", e lui: "Lo so.". Lei lo incalza e gli chiede: "Perché lo fai, allora?" Olivier risponde: "Non lo so."

Sta tutta in questi lo so / non lo so l’intelligenza di Olivier, che fa le cose senza porsi domande poco concrete. E così il film, a forza di non porre questioni e rimanere addosso ai personaggi e ai loro scarni dialoghi, ci dice molte più cose "vere", nella sua insperabile originalità, di tanti film verbosi e pieni di teorie sull’uomo e sulla vita.

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