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QT n. 18, 24 ottobre 1998 Documenti

I sogni di egemonia e la rinuncia alla libertà

Questo testo è l'elaborazione scritta dell'intervento di Giuseppe Ferrandi, tenuto alla presentazione del terzo numero di "Pagine Federaliste" domenica 18 ottobre 1998 presso il Rifugio Malga Zugna

Quella della sinistra e del movimento operaio è una storia ricca e tormentata, segnata da tragiche sconfitte, che hanno poi inciso sulle condizioni materiali di vita dei soggetti più deboli e mal tutelati, ma anche da importanti conquiste, da battaglie destinate ad incidere positivamente su milioni di donne e di uomini, destinate ad accrescere le possibilità di autodeterminare il presente ed il futuro, di concorrere al governo delle città e degli Stati. Se poi dalla situazione italiana ed europea ci spostiamo su scala planetaria un bilancio di questo tipo si carica ancor più di significato: diventa drammatico, impone di attrezzare le forze del cambiamento verso sfide nuove non dimenticando che le contraddizioni insite alla modernizzazione capitalistica e alla globalizzazione ripropongono la necessità di ribadire, e non di rinnegare, gli ideali ed i propositi di cambiamento assunti storicamente dalla sinistra. Ne è una prova quanto poco convincenti siano state, alla prova dei fatti, le semplicistiche interpretazioni circa il crollo dell'impero sovietico, con la proclamata "fine della storia ", dal quale si derivava un "nuovo ordine mondiale " pacificato ed immune da contraddizioni.

Personalmente credo che la sinistra anche in Trentino abbia dimostrato e debba continuare a dimostrare di appartenere a pieno titolo a questa storia e a questo orizzonte ideale. Non c'è e non deve esserci senso di separatezza che la attanaglia, non si respira e non si dovrebbe respirare l'illusione di un felice isolamento, non si può infatti in alcun modo essere indifferenti al contesto in cui siamo giocoforza inseriti. Le donne e gli uomini della sinistra trentina, e con loro il soggetto politico che li rappresenta, devono dimostrare di essere immuni da miopi ed autoreferenziali concezioni, ed è bene che sappiamo guardare ancora di più oltre i confini della loro terra.

Un buon contributo a concepire in questo modo il progetto politico ed ideale viene proprio da quella storia della sinistra e del movimento operaio che in Trentino annovera ormai un secolo di vita. E' stato un secolo che ha visto l'alternarsi di momenti di entusiasmo e di unità a momenti di sconfitta e di divisione, un secolo che comunque ci ha restituito un profilo ideale e programmatico che ha fatto della sinistra trentina, nel suo complesso, un insieme di forze capaci alle volte di essere originali pur nelle condizioni di aggettiva debolezza politico culturale, elettorale, organizzativa. E' un secolo che in Trentino si è imposto con particolare durezza proprio con l'esplodere del primo conflitto mondiale. Una guerra che ha portato fame, morie, disperazione per la gente delle nostre valli, chiamata a combattere nelle lontane terre della Galizia o deportata nelle "città di legno" dell'impero austro-ungherese. E' quindi importante la riflessione che abbiamo voluto proporre con la pubblicazione del terzo numero di "Pagine federaliste". Possiamo avviare una riflessione, stimolati in ciò dalle pagine sulla Grande Guerra scritte da Rodolfo Mondolfo, uomo e pensatore che la sinistra (in tutte le sue anime e componenti) purtroppo ha dimenticato, ma che di questa storia appassionata è stato protagonista.

Nel suo tormentato percorso biografico ed intellettuale egli ha saputo incrociare generazioni diverse di dirigenti e teorici della sinistra italiana, instaurando rapporti di amicizia e di stima con Filippo Turati, Gaetano Salvemini, Cesare Battisti, svolgendo il proprio magistero nel rapporto con allievi ed interlocutori straordinari quali Carlo e Nello Rosselli, Piero Gobetti, Antonio Gramsci. Non si tratta, ovviamente, di attualizzare le posizioni espresse più di ottant'anni fa, a fronte di uno spaventoso conflitto mondiale e dinanzi ad eventi, quali la rivoluzione russa del 1917, che si proposero già allora come spartiacque nella storia mondiale. La lettura dei testi mondolfiani è semmai proficua se viene adeguatamente collocata nel suo tempo e nel dibattito politico teorico di quegli anni. Di quei contributi mondolfiani raccolti nel volumetto "Rodolfo Mondolfo e la guerra delle idee. Scritti 19171919", è possibile individuare tré aspetti di particolare rilevanza. Innanzitutto il concetto di "guerra delle idee ", che non è di Mondolfo, ma che è legittimato dalle caratteristiche dei suoi scritti. Va precisato che una siffatta guerra è "rappresentazione" e non causa dell'evento bellico inteso come distruzione, uso delle tecnologie, morte di massa, ecc. Ma in quanto guerra che viene combattuta dagli intellettuali, dagli scienziati, da coloro che per professione "pensano", porta con sé un prolungamento degli effetti della guerra stessa. Siamo al tema della memoria e della "eredità " che la guerra lascia sul campo, di quel carico di immagini, di ricordi, di contrapposizioni che continuano ad agire una volta che i cannoni tacciono. Se si vuole quindi elaborare una memoria storica che faccia i conti criticamente con la Grande guerra (aggiungerei: specie in una regione di confine), è necessario comprendere per quali meccanismi le comunità nazionali che si combattevano hanno potuto costruire così sofisticate visioni del mondo opposte, capaci di alimentare permanentemente odio e conflitto.

Rodolfo Mondolfo, da buon filosofo e storico della filosofia, si occupa professionalmente del pangermanismo. Egli riesce a cogliere gli elementi caratterizzanti della cultura filosofica tedesca del XIX e del XX secolo, destinati a tradursi in negazioni della libertà e della democrazia, in gravi violazioni dei diritti naturali, ma allo stesso tempo il suo impegno è espressione di un grave equivoco che coinvolse l'intellettualità italiana ed europea : l'incapacità di comprendere fino infondo la portata distruttiva ed antiumana del conflitto, una incapacità che in Mondolfo viene solamente attenuata dall'esito e dalla qualità delle sue riflessioni sulla guerra, una volta che la guerra stava terminando e imponeva nuovi interrogativi.

Il secondo aspetto entra nel merito dell'interpolazione che da M. Mondolfo della cultura filosofica tedesca (in particolare Herder, Fichte ed Hegel). Esso è già esplicitato nel titolo della prolusione bolognese pronunciato per l'inaugurazione dell'anno accademico 19171918: "Dai sogni di egemonia alla rinuncia alla libertà". Ovvero perché dalla pretesa "spirituale" ed eminentemente filosofica di una speciale missione da compiere attribuita alla nazione tedesca si giunge a negare non solo la libertà e i diritti degli altri popoli, ma anche la propria, giungendo a rinunciare all'esercizio della democrazia per meglio caratterizzare l'aspirazione imperialistica.

Alla luce di questo dispositivo, ben radicato nel pensiero tedesco del XIX secolo, Mondolfo spiegherà più tardi l'avvento del nazismo e dei regimi quali il fascismo italiano. Vale solo per la Germania e per i popoli teutonici ? Dai manoscritti preparatori, scritti prima della disfatta di Caporetto, prima dell'ora della "patria in pericolo", sembra che Mondolfo consideri paradigmatico il caso tedesco, ma non esclusivo. Ci sono infatti i nazionalisti di casa nostra, coloro che hanno favoleggiato su un primato italiano, pronti anch'essi a negare la libertà ed i valori della democrazia per coronare progetti imperialistici. Giova qui ricordare che Mondolfo ritiene utile contestare la scuola dell'idealismo attualistico gentiliano e l'interpretazione da tale scuola data riguardo alla tradizione filosofica italiana, una tradizione che in Gioberti e nello stesso Mazzini mostra il proprio carattere autenticamente nazionale. Egli non cita Giovanni Gentile, ma assume come oggetto della propria argomentazione polemica un filosofo minore, che negli anni trenta diverrà "fascistissimo", Balbino Giuliano.

Terzo ed ultimo aspetto, quello meno tecnicamente filosofico ma dotato di maggiore valenza politica, lo si può cogliere quando Mondolfo risponde alle domande sul processo storico aperto dalla guerra e sul destino riservato alla prospettiva democratica e socialista. Si tratta dell'ultimo articolo della raccolta, intitolato "II socialismo e il momento storico presente", pubblicato sulla rivista di Piero Gobetti "Energie nuove" del giugno 1919. In esso Mondolfo tenta un primo bilancio che faccia i conti con la frattura che si è consumata con la Prima guerra mondiale. Il ragionamento riguarda una democrazia qualitativamente trasformata dalla guerra : coloro che vi hanno partecipato, ed in particolare le classi lavoratrici, vogliono d'ora in avanti partecipare attivamente alla vita pubblica. Non ci si illuda, avverte l'autore, che la partecipazione democratica possa venire ridimensionata dopo una richiesta di sacrificio così enorme. Ed è anche per questa necessità storica che la democrazia esce intimamente legata alle ragioni del socialismo. Scrive infatti Mondolfo: "Il problema più formidabile della pace non è nelle discussioni territoriali [...] ma è nella determinazione del nuovo assetto, che in tutto il mondo verranno a produrre i conflitti di classe."

Il tono può apparire ad una prima lettura trionfalistico, ma Mondolfo non si nasconde i problemi inediti da affrontare, posti, fra l'altro, dalla rivoluzione russa e da un esito "massimalista" che egli non condivide. Egli è convinto che solo una democrazia saldata e radicata nella prospettiva del socialismo, solo un socialismo rispettoso della democrazia, permettono di evitare un dopoguerra destinato a trasformarsi in una situazione di guerra civile permanente, foriera di altri conflitti, capace di ricondurci ben presto in nuove ed insanabili crisi. Ad una democrazia di chiara impostazione internazionalista e di avanzato contenuto sociale viene attribuito il compito di impedire quello che purtroppo succederà nell'età della catastrofe, la prima metà del "secolo breve" ben raccontato dallo storico inglese Hobsbawm.

Facile profezia, riconoscerà Mondolfo più tardi di fronte alle dure prove della storia. Facile profezia che però va meditata e ripensata nel concepire quello che Jacques Delors ha recentemente definito come il nuovo e necessario inquadramento intellettuale della sinistra alle soglie del 2000. Definire un programma od un progetto politico con l'aggettivo "democratico " non è infatti sufficiente a caratterizzare una visione che deve rispondere alle inedite sfide proposte da una nuova questione sociale ".

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