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QT n. 9, settembre 2011 L’editoriale

Tagli: i simboli e il resto

I gamberoni e gli astici a un euro, che si possono ordinare soltanto al ristorante del Senato della Repubblica, non manderanno in malora il paese. Ma sono ugualmente uno scandalo inaccettabile in un tempo di crisi come questo. Neppure sommando tutte le risorse che occorrono per far funzionare la macchina amministrativa statale, pletorica e spesso inefficiente, e per mantenere i benefici e gli onori di una classe dirigente politica avvilente (per usare un eufemismo), si arriverebbe a un decimo delle mancate entrate dovute alla diffusa evasione fiscale. Però mai come oggi i politici di professione, assediati ad ogni livello istituzionale nei vari fortini della casta, devono assolutamente dare un segnale non tanto nell’impossibile tentativo di recuperare una credibilità perduta da anni, quanto per fermare una corsa inarrestabile verso il baratro.

La Chiesa gerarchica finalmente si sveglia, affermando con solennità che non possono essere i soliti noti a pagare la crisi, che l’evasione delle tasse è inaccettabile, nell’auspicio che tutti rinuncino a qualcosa in nome della sobrietà. Comunque è sempre l’altro a dover fare il primo passo, a dare il buon esempio, perché dismettere spontaneamente privilegi acquisiti è un atto che non si addice alla mentalità italiana e vaticana. 

Anche qui: le agevolazioni ICI concesse alla Chiesa (ma estese anche a tutto il mondo del no profit) di cui si è discusso molto in questi giorni, sono poca cosa rispetto al truffaldino meccanismo dell’otto per mille che fa entrare nelle casse della CEI un miliardo di euro l’anno, soldi presi anche da chi non ha mai firmato per la Chiesa, lasciando in bianco lo spazio apposito della sua dichiarazione dei redditi, in quanto la ripartizione del denaro avviene secondo la percentuale di quelli che hanno specificato la loro preferenza. Per questo dai pulpiti civili e soprattutto ecclesiali dovrebbero arrivare segnali concreti di rinuncia ai privilegi, grandi o piccoli che siano, per conservare in futuro una minima possibilità di interlocuzione con i cittadini sempre più infuriati e disillusi.

Quest’estate è stata segnata da varie campagne giornalistiche e da azioni singole o collettive veicolate dalla Rete e dai social network, volte a mettere in luce gli scandali della casta e a fare pressione sul Parlamento e sugli enti locali affinché procedano a un taglio delle spese, a partire da stipendi e prebende. Battaglia sacrosanta attuata anche nella nostra provincia grazie a una iniziativa martellante e a una raccolta di firme lanciate con tempismo dal quotidiano Trentino. Dare una scossa ai politici, per farli ritornare con i piedi su quella terra calpestata ogni giorno dai cittadini, è senz’altro necessario e meritevole: in fondo questo è il compito dell’opinione pubblica e dei giornalisti. Tuttavia queste pressioni non devono far dimenticare le questioni vere, quelle su cui si giocano i reali investimenti (anche in termini di denaro) e le scelte dirimenti della politica.

Bastino alcune cifre: il costo complessivo di tutto il Consiglio provinciale di Trento si aggira intorno agli otto milioni di euro l’anno. Tanto, poco? Sicuramente si possono tagliare le spese. Ma tutto l’ammontare delle risorse investite per il funzionamento reale della nostra democrazia è un briciola rispetto alle spese per opere pubbliche spesso inutili (se non dannose per l’ambiente e per gli stessi cittadini): basti pensare all’ultima trovata, la galleria sotto Tenna, che dovrebbe costare 420 milioni. Abbondano svincoli e circonvallazioni demenziali (addirittura in tunnel sotto il Passo di Lavazè!) naturalmente appannaggio delle imprese amiche. Per non parlare del NOT (veleggiamo verso il miliardo) e del faraonico progetto Metroland (almeno tre miliardi), delle speculazioni immobiliari dei poteri forti che, quando non riescono, vengono comunque garantite dai milioni pubblici (vedi la Camera di Commercio, che sta benissimo dov’è, ma dovrebbe trasferirsi in riva all’Adige per comperare a Isa – con i soldi nostri - gli invenduti edifici di Renzo Piano).

Anche questo è casta. Riteniamo quindi fuorviante prendersela solamente con i consiglieri provinciali assolvendo gli amministratori e dimenticando le scelte della giunta, quelle sì decisive per il futuro.

Nei prossimi anni le risorse dell’autonomia diminuiranno. Sarà necessaria una nuova sobrietà ad ogni livello. Ma ancora prima si dovrà decidere dove investire. Si vuole ancora perpetuare il circolo vizioso delle opere pubbliche e del paradosso di scavare buche per poterle riempire, facendo in questo modo girare l’economia? Come gestiamo il calo di soldi disponibili? In particolare dove investiamo oggi, per creare un’economia che domani sappia andare avanti da sola, invece che dipendere dai pubblici denari che non ci saranno più? Di questo soprattutto vorremmo che si parlasse.