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QT n. 3, marzo 2012 Servizi

Statuto dell’Ateneo, atto secondo

Se l’Autonomia assoggetta l’Università

Il Rettore Davide Bassi fra Lorenzo Dellai e Innocenzo Cipolletta

Riassunto delle puntate precedenti: Lorenzo il Munifico (Dellai) acquisisce, con il Patto di Milano, potere di delega sull’Università di Trento; mentre gli osservatori cercano di capire se ciò sia bene o male, la Provincia predispone una discussa norma di attuazione e costituisce un’altrettanto discussa commissione incaricata di occuparsi del nuovo Statuto d’Ateneo; il mondo accademico reagisce e l’operato del Magnifico (Rettore, non Lorenzo) viene fortemente criticato; da ultimi, i professori “che contano” (quelli di prima fascia) si uniscono in congregazione e contestano aspramente l’ipotesi di Statuto.

Gli antefatti

La discussione si è quindi concentrata sull’evoluzione organizzativa dell’Ateneo trentino e sui suoi risvolti. Il Rettore Bassi, il cui operato è stato a più riprese messo in discussione, ha affermato di essere isolato a causa del vizio italico di mettere nell’angolo chi vuol cambiare le cose. Una simile visione, vagamente megalomane, denota una volta di più la precarietà nervosa del Magnifico, che vive il dissenso come attacco personale. D’altronde commentare la debolezza di Bassi, mal celata dalle sue manifestazioni di arroganza, è ormai pura accademia (mi si perdoni il gioco di parole).

Il fatto è che lo Statuto non deve essere viziato dalla medesima debolezza, in questo caso strutturale. Altrimenti al primo cambio di vento amministrativo la ricerca e l’alta formazione andrebbero incontro al rischio di un condizionamento inaccettabile e pericoloso.

È ciò che sostiene “l’assemblea dei 500”, il consesso dei firmatari della petizione di fine gennaio nella quale si suggerivano 4 modifiche “irrinunciabili” alla bozza di Statuto proposta dalla commissione. Quattro modifiche che rivendicavano un ruolo di maggior peso per il Senato accademico sia in merito allo Statuto e alle sue modifiche che all’elezione del Rettore, e contemporaneamente riducevano sensibilmente il potere del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo e la presenza, in esso, della Provincia.

A metà febbraio i direttori di dipartimento, tutti firmatari della petizione, si sono fatti portavoce dell’assemblea e hanno ottenuto un incontro con la commissione per lo statuto. In seguito al quale è stata elaborata una seconda versione dello Statuto, la cosiddetta “bozza 1”.

La quale non ha però soddisfatto i “professori ribelli” (secondo l’infelice formula inventata dalla stampa locale). La commissione, effettivamente, ha recepito alcune indicazioni, ma d’altra parte ha fatto orecchie da mercante su questioni sostanziali.

La questione politica

La bozza, ancora in attesa di revisione tecnico-giuridica, ha raccolto - come c’era da aspettarsi - reazioni differenti.

Il Presidente dell’Ateneo Innocenzo Cipolletta ha adottato una compiacente “strategia dello gnorri”, fingendo di aver colto solo la superficie del problema. Tutto bene, secondo l’ex presidente delle Ferrovie: ci sarebbe separazione dei ruoli tra CdA e Senato e quest’ultimo sarebbe “totale espressione del corpo accademico”. E poi, come ha sostenuto orgoglioso il Presidente, è stato introdotto un comma “che stabilisce l’indipendenza dei consiglieri da chi li ha nominati”. Cosa si può desiderare di meglio?

L’assemblea dei 500 non è dello stesso avviso, e mantiene un atteggiamento critico. È stato fatto notare, infatti, che le “modifiche irrinunciabili” sono state accolte solo in parte e si è parlato di “compromesso al ribasso” e “soluzioni mediocri”.

In effetti, le incongruenze sono ancora molte. E vanno anche al di là della discussione in seno allo Statuto, che rappresenta solo un aspetto di una complessa diatriba politica. Anzitutto, ha ragione chi sostiene che il Rettore non può essere ostaggio dei docenti. D’altra parte, però, la carica è elettiva e deve perciò godere di ampio consenso per poter governare l’Ateneo. Si può sbagliare ad eleggerlo, ma ciò vale anche per gli amministratori pubblici; chiamasi democrazia.

E la democrazia ha regole precise. È stato (non a torto) richiamato un principio di responsabilità secondo il quale patti chiari conferiscono ruoli chiari: la Provincia finanzia l’Università e questa opera in totale autonomia ma risponde (secondo i patti stessi) del raggiungimento degli obiettivi. Il controllore, sia esso (in questo caso) il CdA o una commissione indipendente (e ovviamente competente), deve appunto essere “laico”, come sostiene Michele Andreaus: non dire all’Ateneo cosa deve fare e come lo deve fare, ma valutare i risultati raggiunti. In tutti i casi, chi controlla non può coincidere con chi governa. Né può scrivere le regole in totale autonomia.

Il conflitto di interessi

A proposito di invasioni di campo, il dibattito sullo Statuto è stato accompagnato da un’accesa discussione parallela sul conflitto di interessi. In particolare quello di Massimo Egidi, presidente (nominato dalla PAT) della Fondazione Bruno Kessler (FBK) e rettore della Luiss, e di Antonio Schizzerotto, ordinario di Sociologia, prorettore alla ricerca e presidente di due centri (l’Opes e l’Irvapp) che sono finanziati dalla PAT, oltre che consulente della Provincia stessa. Il primo a tirare in ballo il conflitto di interessi è stato Stefano Zambelli, direttore del Dipartimento di Economia; in un’intervista al Corriere del Trentino, il professore ha fatto notare che, pur mantenendo indipendenza di giudizio, “chi riceve decine di migliaia di euro dalla Provincia avrebbe fatto bene a mettersi da parte”.

La reazione di Egidi e Schizzerotto non si è fatta attendere, incalzata anche da un intervento dell’ex prorettore vicario Giovanni Pascuzzi, che attribuiva il silenzio (inquietante) sulla faccenda a imbarazzo, sufficienza, pragmatismo o (peggio) convenienza.

Egidi aveva sostenuto che il Rettore deve poter prendere decisioni autonome, senza essere per forza “vincolato alle scelte fatte da tutti gli altri organi accademici”. Dopo essere stato chiamato in causa, ha puntato il dito contro un’idea di università “arroccata, in difesa di se stessa e chiusa, che guarda con rimpianto al modello degli anni ‘50”, contrapposta a quella di un ateneo moderno, internazionale e competitivo.

Schizzerotto ha invece anticipato l’obiezione, negandola: ha rivendicato la qualità della sua produzione scientifica come motivazione delle cariche da lui ricoperte ed ha pleonasticamente domandato se anche i suoi incarichi nazionali siano il frutto di buoni rapporti con la politica locale.

Di fatto, però, nessuno dei due ha risposto nel merito. Perché in dubbio non è stata messa la qualità scientifica dei due, quanto piuttosto l’ambiguità della loro posizione. FBK, organismo di ricerca finanziato dalla PAT, e la Luiss sono concorrenti dell’Università di Trento. Esiste, insomma, un interesse economico non trascurabile che nulla ha a che vedere con i curricula personali.

Parti sociali e Confindustria

Trascurabile pare invece essere, sia per la Provincia che per gli ordinari, il ruolo dei sindacati e delle imprese. Non è infatti cosa di poco conto che nella composizione del nuovo CdA non sia prevista la presenza, oggi garantita, delle parti sociali e degli imprenditori. Non solo: l’emendamento allo Statuto proposto da Franco Ianeselli (CGIL) e Diego Schelfi, che prevedeva momenti di confronto periodico tra l’Ateneo, le parti sociali e la Confindustria, è stato bocciato. Ma certo: di questi tempi, perché mai discutere tutti insieme di temi come i praticantati post-laurea, l’aggiornamento e l’inserimento professionale?

“La delega in materia di Università deve diventare lo strumento per trasferire conoscenza e competenze ai giovani, esaltare le loro capacità ed i loro talenti, sostenerli nell’accesso ad un’occupazione qualificata”, sosteneva qualche giorno fa l’assessore Alessandro Olivi sulle pagine del Trentino. L’approccio, a questo proposito, non pare dei migliori.

Studenti e precari

Dal conflitto di interessi, al disinteresse. Il disinteresse esibito da buona parte della popolazione studentesca, intenta a preparare esami e miope nel valutare le ricadute dello Statuto anche sull’organizzazione strutturale e didattica. Anche in termini di presenza negli organi di governo del futuro Ateneo. Da questo punto di vista, la latitanza dei rappresentanti degli studenti è colpevole e deprimente: non un dibattito, non una presa di posizione, se non quella (a dire il vero deboluccia) del Consiglio degli Studenti.

Ma anche il disinteresse dimostrato in precedenza dai “professori ribelli” nei confronti di quella parte di studenti che, invece, non ha subìto la riforma dell’Università trentina in modo passivo. Quando, infatti, gli studenti si mobilitarono per protestare contro la norma di attuazione, quasi nessun accademico offrì loro una sponda. Ed anche le dimissioni dal CdA del ricercatore Claudio Della Volpe passarono nel silenzio. I professori, insomma, si sono mossi con colpevole ritardo. E il tempismo non è l’unico limite che si può imputargli. Gli ordinari avrebbero infatti potuto fare maggiore e migliore informazione nelle aule. Attenzione, non proselitismo, ma circolazione di notizie e coinvolgimento degli studenti. Fornendo loro gli strumenti per interpretare la situazione e veicolare in qualcosa di costruttivo le energie positive, finora disperse dopo le sacrosante e giustificate proteste iniziali.

Esiste però anche un’altra consistente (e ignorata) porzione della comunità accademica che già oggi vede riconosciuti i propri diritti in maniera limitata, e che certamente non può trarre giovamento dal nuovo Statuto (nella sua forma attuale). Si tratta dei precari dell’università, dai ricercatori a tempo determinato ai dottorandi, passando per gli assegnisti di ricerca. La “bozza 1” riconosce questi ultimi come componenti della comunità universitaria, ma non definisce né tutela la loro posizione all’interno dell’Università, nemmeno a livello di rappresentanza. In un suo intervento sul Corriere del Trentino Alexander Schuster, presidente dell’ADI, ha giustamente rilevato che il confronto tra Università e Provincia è in realtà tra professori ordinari e giunta provinciale e che si sta perdendo l’occasione per creare un ateneo nuovo, giovane, competitivo e attraente, con attenzione al merito e prospettive di carriera.

Il futuro: così lontano, così vicino

La situazione, dunque, è complessa. Entro il 7 marzo la bozza di Statuto dovrà essere presentata al Senato accademico, che potrà accettarla o respingerla. Nel secondo caso, ci sarà una proroga: altri tre mesi per discutere; ed è questa la soluzione auspicata dall’assemblea dei 500, che starebbe pensando anche a un passaggio nei singoli Consigli di Facoltà (come previsto peraltro dalla legge nazionale). Certamente, gli strappi e gli squarci creatisi sia all’interno dell’Ateneo come dell’amministrazione provinciale, come pure tra i due soggetti, dovranno essere prima o poi ricomposti. Magari a partire da quello tra professori, studenti e precari.

Cosa cambia nella “bozza 1”

La nuova versione dello Statuto prevede che il Consiglio di Amministrazione sia composto da 9 membri (e non 7, come richiesto) con mandato non rinnovabile. Ed è ancora la Provincia a farla da padrone, nominando 3 membri e scegliendone altri 3 in una rosa di 6 proposta dal Senato (il CdA si completa con il Rettore, un nominativo designato dal Ministero e il presidente del Consiglio degli Studenti). È confortante (sebbene doveroso) che i membri del Consiglio debbano “possedere elevate doti di professionalità”, conoscere il sistema universitario ed avere adeguata competenza dirigenziale; e che siano chiamati (come preteso dai 500) a non trovarsi “in condizione di conflitto di interessi con l’Università ai sensi del Codice etico di Ateneo” e ad agire “nel solo interesse dell’Università e in modo indipendente rispetto a qualsiasi istanza esterna e nei confronti di chi li ha nominati o designati”. Rimane incredibile, però, che i consiglieri, nel caso in cui dovessero violare il Codice etico, dovrebbero poi essere sottoposti al giudizio non del Collegio di disciplina, ma direttamente della Provincia.

Per quanto riguarda l’elezione del Rettore, il candidato dovrebbe avere esperienza nella conduzione di strutture accademiche e nella partecipazione a progetti di ricerca e un “qualificato profilo scientifico riconosciuto in ambito internazionale”. Non sono più requisiti per la candidatura la “coerenza delle linee generali” dell’Ateneo definite nello Statuto stesso e la “sostenibilità delle indicazioni strategiche” dell’aspirante Magnifico. Il comitato preposto ad accertare le referenze sarebbe composto da 3 membri nominati rispettivamente dal CdA, dal Senato accademico e dai due organi congiunti.

A proposito del Senato: la nuova bozza prevede che esso sia formato dal Rettore (il cui voto non sarebbe decisivo in caso di parità), da 3 professori ordinari nominati dal Rettore stesso, da 4 ordinari eletti e da 2 studenti. Il corpo elettorale per i 4 ordinari sarebbe formato da professori di ruolo e ricercatori a tempo indeterminato e dovrebbe eleggere 2 professori di area sociale-giuridica e 2 di area tecnico-scientifica.

Sempre in tema di Rettore, l’iter da mettere in atto per far decadere la sua carica desta ancora non poche perplessità. Anche nella “bozza 1”, infatti, la procedura di sfiducia non è stata slegata, come chiedevano i 500, da una mozione che deve essere genericamente motivata e approvata a maggioranza di 2/3 dal CdA. Non basta che secondo la nuova bozza tale mozione possa essere avanzata anche da un nuovo organo, la Consulta dei Direttori, composta (appunto) dai direttori di dipartimento: resta fermo il fatto che il CdA non rappresenta la base elettorale del Rettore, e pertanto non dovrebbe costituire un filtro (attivo o passivo) alla sfiducia nei suoi confronti.

Anche il nodo delle modifiche allo Statuto resta da sciogliere. La “bozza 1” prevede che le eventuali modifiche debbano essere approvate (a maggioranza di 2/3) in seduta congiunta dal Senato e dal CdA. Ricordando che il Rettore fa parte di entrambi gli organi, e facendo un rapido calcolo, si può capire come lo Statuto non potrebbe in alcun modo essere modificato da soli esponenti della comunità accademica. Fatto, questo, che preoccupa non poco i professori.

Intervista al prof. Giovanni Pascuzzi

Pascuzzi

All’Assemblea dei 500 c’era una sorta di latente rassegnazione.

“Non credo che dovremmo aspettarci grandi cose: la Commissione Statuto farà alcune modifiche soprattutto di tipo tecnico. E il Senato approverà la nuova bozza, non mi aspetto proroghe”.

Eppure i direttori dei dipartimenti sono contrari...

“Ma al Senato votano i presidi di facoltà”.

Come mai questa discrasia?

“Bella domanda. Sta di fatto che i presidi non si sono molto esposti”.

C’è chi vi contesta di non aver offerto sponda agli studenti quando protestavano contro la norma di attuazione; e di non aver coinvolto, se non tardivamente, sia loro che il personale tecnico, i ricercatori e la società.

Le nostre iniziative si sono sviluppate in maniera molto spontanea. La raccolta di firme è stata aperta a tutti. Poi io non rappresento che me stesso; l’anno scorso, da prorettore, sono andato a parlare con gli studenti, oggi se Schelfi o gli studenti avessero organizzato degli incontri ci sarei andato. Resta comunque l’interrogativo: come mai non ci siamo incontrati? Ci dovremo riflettere”.

Comunque vada a finire, è in genere dai conflitti che nascono le nuove sintesi...

“Concordo in pieno. Ed è quello che speriamo. Il nostro è un atto d’amore nei confronti dell’università, la partecipazione così significativa delle persone è il vero dato importante, di cui credo si debba essere soddisfatti. Poi si vedrà”.