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QT n. 9, settembre 2012 Rubriche: Risiko

Siria e Iran nella bufera

La pericolosa illusione di una nuova “primavera araba”

L’attenzione dei media è focalizzata negli ultimi mesi sulla Siria e la guerra civile che divampa tra Aleppo e Damasco, due tra le più belle e antiche città del mondo. Si dice che in Siria si vive un altro importante capitolo della Primavera Araba, che l’odiato regime alawita al potere ha i giorni contati e anche su questo paese risplenderà presto la luce della democrazia. Vi sono, per la verità, diversi equivoci in questa ricostruzione che è divenuta un po’ la vulgata che passa sui media internazionali.

La Siria è certamente un regime autoritario in cui una minoranza - quella alawita, vicina almeno per le sue origini allo sciismo - da decenni impone la propria egemonia sul paese. Che è a maggioranza sunnita, è vero, ma con molte linee di divisione interne che passano per le differenze tribali e di clan, per non parlare delle altre consistenti minoranze religiose (cristiane, druse ecc.). Il regime degli Assad - padre e figlio - attraverso un patto di associazione al potere con alcuni potentati sunniti, ha garantito sino a ieri un buon equilibrio fra tutte queste componenti. Il paese, che aveva raggiunto un certo grado di benessere e sviluppo all’ombra del partito unico Baath, espressione sin dagli anni ‘50 di un socialismo arabo moderato, il cui ideologo principale Michel Aflaq era un cristiano, è sempre stato profondamente laico e tollerante sul piano confessionale.

A questo proposito, ricordiamo solo due fatti significativi: l’antica comunità cristiano-orientale di Siria vi ha prosperato in pace e libertà, le sue chiese sono rispettate e frequentate senza problemi; al contrario, i Fratelli Musulmani non hanno diritto di cittadinanza sin dagli anni ‘80, allorché il regime condusse contro di loro una politica di spietata repressione poliziesca. Il messaggio era chiaro: il regime accettava solo forme di islam moderato, che rinunciasse a qualsiasi pretesa politico-militante. In questo quadro, con luci ed ombre, ma certo non peggiore di quello di tanti altri regimi autoritari della regione, c’era però una pecca: gli Assad in politica estera si sono sempre appoggiati all’ex-Unione Sovietica e in seguito, pur allentando i vincoli, alla Russia post-comunista di Eltsin e Putin, cui è garantito l’uso della base navale di Tartus, l’unico punto d’appoggio per la flotta russa nel Mediterraneo. L’altra non minore pecca del regime in politica estera sono i buoni rapporti con l’Iran degli ayatollah, regime teocratico che certo non ha nulla da spartire con l’ideologia laica del Baath, ma è accomunato alla Siria nella lista americana degli stati-canaglia.

Col pretesto dei “diritti umani”

In queste due pecche vanno ricercate le ragioni profonde della cinica operazione di destabilizzazione della Siria che gli USA (con Francia e Gran Bretagna) stanno portando avanti in modo attentamente pianificato. Il discorso sui “diritti umani” - certamente in Siria poco rispettati ma né meno né più che in Arabia Saudita o in Kuwait - o la fanfara mediatica sul paventato uso di armi chimiche da parte del regime messo all’angolo (con Saddam, si ricorderà, si parlava di armi atomiche), fanno parte del grande battage propagandistico atto a giustificare, oggi, gli interventi coperti già in atto da mesi (invio di armi e denaro alla resistenza siriana anti-regime, assistenza sul campo dei servizi segreti anglo-americani) e domani, se non bastasse, un intervento sul modello della operazione-Libia che condusse alla fine di Gheddafi. Lo scopo di questa pianificata azione di destabilizzazione della Siria è evidente: si vuole da un lato eliminare l’ultimo bastione della Russia nel Mediterraneo, che finalmente diverrebbe tutt’intero un “mare nostrum” (della NATO). Dall’altro si vuole isolare ulteriormente l’Iran degli ayatollah, l’altro spauracchio agitato dalle fanfare mediatiche occidentali.

L’Iran, colpito com’è da durissime sanzioni economiche promosse dagli USA (cui l’Europa s’è accodata come sempre), nonché sotto la minaccia di attacchi preventivi di Israele, si sta muovendo con grande cautela. Ha stretto ulteriormente i legami con la Russia di Putin (dalla cui tecnologia nucleare dipendono le sue centrali atomiche) e ora, con un colpo magistrale, ha segnato il suo ritorno alla grande sulla scena internazionale. A fine agosto a Teheran i rappresentanti di ben 120 paesi si sono riuniti nell’ultima Conferenza dei Paesi Non-Allineati, sotto la presidenza dell’Iran che la manterrà per tre anni fino al 2015. Un successo d’immagine e di prestigio clamorosi, con la ciliegina della presenza del segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon - non a caso i media occidentali hanno tenuto l’evento il più possibile sotto traccia - che smentisce clamorosamente la vulgata dell’ “isolamento” di Teheran. Il paese anzi ha preso le redini di quel Movimento dei Non-Allineati che negli anni ‘50-’60 ebbe in Indira Gandhi, Nasser, Tito, Sukarno i suoi prestigiosi protagonisti e, oggi, si ripropone come assise di quel mondo che mette sempre più in discussione la leadership americana e occidentale.

Se ci sono davvero piani d’attacco all’Iran, oggi diventa tutto più difficile proprio perché l’Iran si è proposto con successo come leader dei paesi non-allineati, con la benedizione di mezzo mondo, di Ban Ki Moon e persino del neo-presidente egiziano Morsi, fratello musulmano moderato accolto calorosamente. Quest’ultimo, è vero, s’è schierato dalla parte degli insorti in Siria (tra i quali gli islamisti hanno un ruolo preponderante), ma la sola presenza di del leader dell’Egitto - paese sunnita tradizionalmente ostile - è stata per l’Iran sciita un successo diplomatico straordinario, il segno tangibile che la sua politica “anti-imperialista” ha fatto breccia anche nel cuore del mondo sunnita. Ahmadinejad s’è spinto arditamente sino a proporre che un quartetto tutto musulmano, formato dai big della regione (Iran, Egitto, Turchia e Arabia Saudita, quest’ultimo essendo il nemico dichiarato degli ayatollah), si occupi della risoluzione del problema palestinese, implicitamente sottolineando il fallimento di tutti i tentativi gestiti sinora da USA o Europa.

Una storia che rischia di ripetersi

Il presidente siriano Assad

Resta da vedere ora quale sarà la reazione degli USA (e di Israele), che evidentemente non possono fingere che nulla sia accaduto. Israele, che nella sua guerra ideologica all’Iran ha sempre avuto come taciti alleati i paesi arabi del Golfo, Arabia Saudita in testa, si ritrova ora davanti a un Iran assurto a leader dei paesi non-allineati e in buoni rapporti con la Turchia di Erdogan e l’Egitto di Morsi, due paesi-chiave della regione, entrambi sunniti e retti da partiti islamisti moderati. Gli USA, già restii ad appoggiare le prospettate avventure militari di Israele, sembrano ora ancor più recalcitranti. Almeno finché dura la presidenza di Obama, notoriamente attenta agli equilibri della regione e a preservare i buoni rapporti con i paesi musulmani; con un governo repubblicano, le cose potrebbero presto cambiare. La situazione geopolitica al momento evolve, almeno apparentemente, a favore dell’Iran, e la Russia di Putin appare ben decisa a rafforzare i suoi legami nella regione e a sostenere il regime siriano, o quantomeno a imporre una soluzione di transizione a lei favorevole.

Resta una domanda, che, credo, pone seri quesiti sull’intelligenza politica di chi dirige o ispira la politica estera degli Stati Uniti. In Irak l’avventura militare americana s’è conclusa con libere elezioni che hanno portato al potere un partito religioso sciita, ancorché moderato, che ha solidi e storici legami con l’Iran degli ayatollah. In Tunisia, Libia, Egitto, ovunque sia arrivato il vento della Primavera Araba, le libere elezioni hanno sortito analoghi esiti: partiti islamici, in apparenza moderati, sono giunti al potere. In Siria, se la destabilizzazione si concludesse con successo, ci ritroveremmo ancora una volta con un partito islamico al potere. In tutti i paesi citati, regimi autoritari di ispirazione socialista moderata e laica, avevano almeno garantito per decenni alcune libertà personali fondamentali: quella delle donne all’istruzione e a circolare senza il velo; quella dei privati cittadini di andare o non andare in moschea, e di divertirsi come meglio credevano nei moderni luoghi di perdizione.

Le notizie che ci giungono dalla Tunisia e dagli altri paesi della Primavera Araba non sono incoraggianti. L’islamismo militante cerca di rafforzare la sua presa sulla società e il suo controllo sui costumi privati, di uomini e donne.

Non è che domani dovremo ringraziare gli USA (nonché Francia e Gran Bretagna) per avere portato questi paesi alla dittatura dell’islamismo più bigotto? Non è che domani barbuti fondamentalisti rideranno del “Grande Satana” americano che ha inopinatamente consegnato loro il potere con libere elezioni? Ma c’è un’altra domanda, anche più inquietante: se gli USA si convincono che anche con gli islamisti appena giunti al potere si possono fare ottimi affari e magari stringere alleanze militari in chiave di Realpolitik (come già fanno con l’Arabia Saudita), importerà loro ancora qualcosa del rispetto dei diritti umani o dei diritti civili nella regione?