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QT n. 10, ottobre 2012 La storia

L’argento di Potosì

Nelle leggendarie miniere della Bolivia, il poco argento rimasto è sfruttato da cooperative di minatori, a prezzo di un lavoro massacrante. Per fortuna sono arrivati i turisti...

Dire che il nostro benessere dipende in parte significativa da una città sconosciuta, ubicata a 4.000 metri d’altitudine nel mezzo della Bolivia, sembra un’affermazione azzardata. Ma potrebbe nascondere più verità di quanto ci si immagini. Potosì, la “città più alta del mondo”, come affermano orgogliosi i suoi abitanti, è infatti stato uno di quei luoghi chiave in cui è avvenuta quella che Marx ha chiamato “accumulazione originaria del capitale”, grazie alla quale le potenze europee hanno potuto mettere in campo quegli ingenti investimenti che hanno prodotto la nascita della rivoluzione industriale. Infatti, la montagna che si staglia sulla città, il Cerro Rico, a partire dal XV secolo è stata letteralmente svuotata, facendo arrivare in Spagna (e da lì ai creditori inglesi, tedeschi e fiamminghi del regno di Madrid) una quantità di argento tale che avrebbe permesso, dice un luogo comune non troppo lontano dal vero, di costruire un ponte in argento che superasse l’Atlantico e collegasse la Bolivia alla sua madrepatria di un tempo.

Un tentativo di quantificazione del giornalista uruguayano Eduardo Galeano parla di 16 milioni di tonnellate d’argento che sarebbero partite da Potosì per arricchire l’Europa, un calcolo che esclude però il contrabbando, che potrebbe forse raddoppiare questa cifra. Grazie a questa immensa risorsa naturale e all’indotto che produceva, nel XVII secolo la città era non solo la più alta, ma anche la più popolata del mondo, con più abitanti di Parigi e Londra. Una parte di questi abitanti, di solito i membri della società coloniale potosina, ha vissuto nella ricchezza più sfrenata per oltre tre secoli. La grande maggioranza, però, era costituita da indigeni che lavoravano, in condizioni estreme e in condizione di schiavitù, nell’estrazione dell’argento. Un altro calcolo di Galeano, ancora più difficile del precedente, considera che il Cerro Rico, fra incidenti e malattie, abbia causato la morte prematura di circa 8 milioni di minatori.

Quel che resta di una miniera

La lavorazione dell’argento

Oggi, Potosì è profondamente cambiata. Già dall’Ottocento l’argento ha cominciato ad esaurirsi, e con lui se n’è andato il benessere, che ha lasciato solo una piacevole architettura coloniale. La città ha meno abitanti che nel XVII secolo, ed il Cerro Rico, svuotato, ha iniziato a collassare, perdendo più di 500 metri d’altezza. Qualcosa, però, è rimasto simile ad un tempo: le gallerie che affondano nella montagna sono ancora percorse da migliaia di minatori che sopportano le durissime e pericolose condizioni di lavoro per un guadagno da fame. Dal 1952 le miniere sono passate al controllo diretto dei minatori, che si sono organizzati in cooperative e hanno quindi smesso di essere dei salariati. Ma questa è stata tutt’altro che una grande vittoria, anche se alcuni osservatori marxisti hanno provato a dare questa lettura.

“I proprietari delle miniere chiudevano perché l’argento era sempre più difficile da trovare e i giacimenti non rendevano abbastanza. I minatori hanno combattuto ed ottenuto dal governo di tenere le miniere funzionanti non certo per arricchirsi, ma perché non avevano altra scelta, non c’era altro modo di sfamare le loro famiglie. Oggi, lavorano in miniera 8-10 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, e la maggior parte di loro riesce a stento a comprarsi il cibo, che si può permettere solo perché le cooperative continuano a usare attrezzature antiquate, che non hanno diminuito la fatica né migliorato la sicurezza, perché i guadagni non basterebbero. In passato, quando bastava una picconata per trovare chili d’argento, si lavorava con salari fissi, e bassissimi. Oggi, che il guadagno dipende dall’argento che si trova, bisogna scavare ore ed ore per le briciole”.

Chi racconta è Paco, detto Woody, 46 anni, quindici dei quali passati come minatore, fino a che, poco più di 10 anni fa, ha aperto un’agenzia turistica insieme ad altri lavoratori come lui. Oggi, Woody fa la guida turistica, ed ha cambiato lavoro ma non luogo. Infatti, il suo compito è portare i turisti stranieri a visitare le miniere ancora attive del Cerro Rico. Un’attività che ha raggiunto una discreta diffusione, a Potosì, dove operano ormai più di una ventina di agenzie specializzate in tour delle miniere. Woody è molto soddisfatto di questo lavoro: “Col turismo si guadagna molto di più. È vero che continuiamo ad entrare nelle miniere, ma solo per due ore ed una volta ogni due-tre giorni. Se negli ultimi 10 anni avessi continuato a fare il minatore, non credo sarei ancora vivo. L’aspettativa di vita, se lavori nel Cerro Rico, è di 40-45 anni. Gli incidenti mortali, come i carrelli impazziti, i crolli ed il contatto con gas tossici che uccidono all’istante, sono frequenti laggiù. E quando sopravvivi a quelli, c’è la silice che respiri e ti distrugge i polmoni. Quasi tutti quelli che non muoiono per gli incidenti lo fanno per la silicosi. Con il mio lavoro di adesso, invece, posso sperare di vivere un’altra decina d’anni almeno”.

Acqua, coca, alcol e dinamite

Dinamite e alcol

Woody racconta tutto questo davanti al mercato dei minatori, tappa intermedia tra il centro della città e la visita alle miniere. Infatti, attraverso i loro tour, le guide cercano di dare una mano ai loro ex colleghi, devolvendo alle cooperative parte degli introiti e invitando i turisti a comprare qualcosa da offrire ai minatori che incontreranno. Anche per il più vuoto dei portafogli europei, il mercato dei minatori di Potosì ha prezzi irrisori, che continuano però ad essere proibitivi per i minatori stessi. Sono quattro gli articoli che si consiglia di comprare per le offerte: bottiglie d’acqua, foglie di coca, che aiutano a non sentire la fatica, dinamite, che in Bolivia è totalmente legale e serve a proseguire le gallerie, ed un alcool a 96 gradi, assolutamente imbevibile, che costituisce però un inseparabile compagno di lavoro. “Niente cibo però. - avverte Paco - Una volta entrati nelle miniere, le temperature raggiungono i 40, a volte i 50 gradi. I minatori non mangiano mai, neanche se rimangono nella montagna per 10 ore, perché il cibo gli fermenterebbe nello stomaco”.

I devoti di El tio

El tio

La visita alle miniere è effettivamente un’esperienza estrema. A un’altitudine di 4.300 metri, dove un europeo in buona salute fa fatica a camminare, bisogna strisciare in gallerie strettissime, a 40 gradi, con la silice che fa bruciare la gola ed i bronchi. E solo per incontrare persone che lo fanno tutti i giorni, trasportando zaini o carrelli carichi con 50 chili di pietre. Fino al fondo della galleria, dominato da “El tio”, una specie di diavolo che i minatori trattano come una divinità, portandogli in offerta alcool, sigarette e foglie di coca. “Anche se l’unica offerta che interessa a El tio - racconta Hugo, minatore - è la nostra vita”.

Ciò che più di tutto lascia esterrefatti, però, è l’atteggiamento dei minatori verso il loro lavoro. “Lavorare nel Cerro Rico non è una sofferenza, è un onore” dice Hugo. Un sentimento di orgoglio ben esemplificato dalle parole di Manuel, 19 anni: “Da quando ho compiuto sedici anni la legge mi permetteva di lavorare qui. Ma mio padre ha voluto farmi aspettare ancora, era preoccupato. Finalmente, sono riuscito a convincerlo, e ieri è stato il mio primo giorno di lavoro in miniera. Sono felicissimo”. Un atteggiamento, questo, di certo messo in atto per impressionare gli affaticati stranieri. Ma, soprattutto, un modo di dare un senso alle proprie fatiche. Un orgoglio, tutto sommato, decisamente ben meritato. Ma anch’esso destinato a durare poco: “L’argento è finito, e anche i filoni di stagno trovati da non molto sono quasi esauriti. Tra poco, le imprese a cui vendiamo l’argento si metteranno a cercare ciò che è avanzato nelle montagne di detriti ammassati sulle pendici del monte. Questo darà lavoro per un’altra decina d’anni, poi non ci sarà davvero più niente da succhiare dalle viscere del Cerro Rico. Che, tra l’altro, è troppo svuotato per restare in piedi. Tra al massimo cinquant’anni, al posto di questa montagna ricchissima ci sarà un cratere, e senza montagna anche molte opportunità di turismo spariranno. Alle 15.000 famiglie che oggi vivono della montagna, non resterà che emigrare”.

Insomma, l’attività estrattiva del Cerro Rico, che ha fatto vivere in schiavitù ed ucciso milioni di persone, sta volgendo al termine dopo più di mezzo millennio. E, per quanto possa sembrare incredibile, questa non è una buona notizia, ma solo uno spunto per riflettere sull’origine del nostro modo di vivere, e sulle sue conseguenze.

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Commenti (1)

Alex Marini

Quello delle miniere latinoamericane è un argomento affascinante pur nella sua drammaticità. E' infatti uno dei fenomeni più evidenti dove si è evidenziato lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo con il fine dell’arricchimento di ristretti gruppi di individui e certamente nel del benessere collettivo. Per il linguaggio seducente e l’abbondanza di dettagli libro di Galeano, il quale è peraltro un romanziere e non uno storico, è considerato uno dei libri di storia più lineari e più riusciti per descrivere e per farci comprendere le vicende socioeconomiche latinoamericane.
Mentre leggevo il bell'articolo di Corrado pensavo però che anche a livello locale abbiamo avuto i nostri drammi. Ad esempio nel paesino di Darzo in Valle del Chiese, lo sviluppo economico si è raggiunto a caro prezzo. Numerose vite umane sono terminate dolorosamente a causa del duro ed insalubre lavoro in miniera per l’estrazione della barite.
Tra l'altro un altro aspetto comune tra Darzo e Potosì, e quindi tra l’Italia e la Bolivia, è la presenza di un protettore. Quello dei nostri minatori è Santa Barbara, un po' meno folkoristico di El Tio, ma che tuttavia in occasione della sua ricorrenza veniva celebrata con festeggiamenti e bagordi piuttosto estremi, senza foglie di coca ma con generose dosi di alcool e tabacco.
La Miniera Associazione negli ultimi hanno ha prodotto degli ottimi risultati per mantenere viva la memoria storica. Suggerisco a questo riguardo il sito web http://www.minieredarzo.it/, il quale potrebbe dare uno spunto per un approfondimento di QT.
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