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Homo Sapiens

L’assurdità del razzismo

“Homo Sapiens”

A novant’anni dalla sua fondazione, il Museo delle Scienze di Trento si congeda dalla trentennale sede di palazzo Sardagna con un’ultima grande mostra intitolata “Homo Sapiens”. Entro la primavera del 2013, infatti, il Museo si trasferirà nella nuova sede progettata da Renzo Piano, situata nell’ex-area Michelin, sulla sponda sinistra dell’Adige. Per concludere degnamente questa sua seconda vita (la prima, dal 1922 al 1982, nell’edificio dell’attuale sede di Sociologia), fino al 13 gennaio 2013 il Museo ospiterà l’allestimento organizzato in collaborazione con la creatura di Vittorio Bo, la società torinese “Codice. Idee per la cultura”, curato da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Piovani. Il sottotitolo della mostra - “La grande storia della diversità umana” - traccia chiaramente la linea argomentativa seguita dall’allestimento, presentato il 20 settembre scorso di fronte a uno straripante e interessato pubblico nell’auditorium del Museo. A far gli onori di casa, ovviamente, il direttore Michele Lanzinger, visibilmente soddisfatto sia per l’evento in sé, sia per la risposta del pubblico, così come per la presenza qualificata di curatori, ricercatori ospiti e autorità. Vittorio Bo, direttore del Festival della Scienza di Genova, non ha mancato di rilevare con orgoglio la riuscita della mostra “nel creare linguaggi per avvicinare il pubblico alla scienza”, sottolineando l’italianità dell’intera organizzazione e produzione.

Al fine di dare la parola all’assessore alla Cultura, Lanzinger ha quindi ricordato il ruolo dell’Amministrazione provinciale nel favorire l’allestimento e, dal canto suo, Franco Panizza in un breve intervento ha elogiato l’abilità degli organizzatori nell’ospitare “Homo Sapiens” in uno spazio museale “ampio ma contenuto”, ed è riuscito inoltre a ribadire il suo mantra multi-uso, definendo il Museo come un ente “radicato ed espressione del territorio, ma che ha la capacità di aprirsi al mondo”.

Il livello della presentazione si è innalzato sensibilmente quando a prender la parola è stato Telmo Piovani. Lo scienziato bergamasco ha illustrato con piacevole erudizione il progetto e l’importanza degli studi di Cavalli Sforza, sia sul piano scientifico che nell’ambito della divulgazione, sintetizzando infine, prima di passare la parola al più celebre scienziato, il percorso storico-narrativo sotteso alla mostra, fondato sul racconto dei movimenti umani dall’Africa verso gli altri continenti, fino all’estinzione di quattro dei cinque gruppi di ominidi, imparentati tra loro, cui sarebbe sopravvissuto l’Homo Sapiens, il nostro diretto antenato.

Il novantenne Luca Cavalli Sforza, genetista e antropologo, autore di classici come “Chi siamo. La storia della diversità umana” (1993) e “Geni, popoli e lingue” (1996), si è speso nell’affidare ai presenti alcuni spunti di riflessione filosofici, in modo evidentemente accorato. “Perché occuparci dell’uomo?” ha infatti domandato, retoricamente, offrendo subito la sua risposta: “Più riusciamo a capire noi stessi, migliore è la speranza di essere completi, creare una vita sociale e costruttiva, gradevole a sé e agli altri”. Pillole di saggezza, come suol dirsi. “Siamo tutti un po’ diversi - ha aggiunto - ma di una specie unica”, provenienti da un gruppo molto piccolo numericamente parlando, per cui le differenze apparenti, le più evidenti, sono semplici segni di un diverso adattamento di individui della stessa specie a contesti e ambienti diseguali. Queste semplici considerazioni lo hanno infine portato ad affermare che “non ci si può permettere di fare i razzisti” e che la mostra dovrebbe spingere i visitatori a “imparare a essere cortesi”. Il pubblico ha sottolineato la conclusione del suo intervento con un lungo applauso.

“Homo Sapiens”

Riguardo all’intervento degli altri due ospiti, va detto che l’autoironia esibita dal fisico nucleare Claudio Tuniz, nel raccontare le vicende relative alla scoperta e identificazione di una minuscola otturazione fatta con cera d’api in un canino della mandibola di un individuo di 6500 anni fa, ha contribuito ad alleviare la progressiva stanchezza generata da una presentazione complessivamente un po’ prolissa, che ha spinto l’ultimo relatore, il paleontologo Alfredo Coppa, a riferire con una certa fretta sui reperti di Homo Ergaster presentati nella mostra.

In conclusione, si può dire che l’allestimento è senza dubbio efficace, di ottima fattura e raffinato nelle soluzioni espositive, così come nelle proposte interattive.

L’unica possibile pecca, evidentemente fondata nell’esplicita intenzione dei curatori, sta nella rappresentazione univocamente positiva, quasi trionfale, deconflittualizzata, dell’evoluzione umana (nel tratto storico rappresentato), dalla contemplazione della quale si esce forse rafforzati nella propria eventuale e non scontata idea di fratellanza universale, tuttavia subito delusa dalle prime breaking news, che in ogni momento stanno a ricordarci il cammino non sempre fiorito ed amoroso dei sedicenti Homines Sapientes su questo pianeta.