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Dopo Margherita...

25 anni accanto a una figlia con gravissimi problemi, poi la morte e il ritorno a una vita normale, con la libertà ma anche il vuoto . Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Testimonianza di Claudia Marzocchi. A cura di Gianni Saporetti.

Avere un figlio con gravi problemi diventa una ragione di vita quasi totalizzante. Ma poi, quando non c’è più?

Per un verso - è brutto dirlo - ti senti libera, ti riappropri dei tuoi tempi, di una vita più normale. La settimana dopo che è morta Margherita, mi sono trovata una sera a tornare verso casa meravigliandomi del fatto che quello era un orario in cui io mi ero dimenticata di poter essere in centro a passeggiare. Quindi c’è questo senso di libertà, di essermi sganciati da un obbligo gravoso, È un po’ come se, per 25 anni, m’avessero tenuta in una fionda con l’elastico tirato. A un certo punto vieni mollata e bam, parti e non sai verso dove, se andrai a sbattere. Comunque ti senti libera.

Per un altro verso c’è un senso di mancanza: l’impegno è anche una grande motivazione, un investimento: ti senti, e sei, molto importante. Qualcuno dipende da te e questo se dà una grande costrizione, dà anche un senso alla tua vita. La mancanza la senti nel quotidiano dove le tabelle di marcia forzate, tutta un’organizzazione precisa al minuto, tutto questo, improvvisamente, non c’è più. Dalla poltrona, se guardo la televisione o leggo e le porte sono aperte, vedo il corridoio e la camera da letto. E, i primi tempi che lei non c’era più, mi veniva da voltarmi per controllarla, perché l’ho fatto tante volte... O abbassavo il volume della televisione, come se lei fosse di là e stesse dormendo. Devi ripensare e riorganizzare tutto e non hai più la mano. Ecco, c’è un aspetto che è di vuoto.

Poi sono riuscita a viaggiare, ad andare in Puglia a trovare un amico che da anni mi invitava, in Bosnia a incontrare delle persone di un’associazione per le adozioni a distanza. Poi sono andata a Londra, dove sono nata e non ero più tornata...

Negli anni sentivi crescere la fatica?

La fatica fisica ultimamente era diventata pesantissima. E su quello non ci puoi fare tanto. Ho anche cominciato ad avere un problema di artrite reumatoide, per cui avevo male a un gomito, poi ho avuto male alla spalla, poi a una mano... e con lei non potevo dire: “Oggi non ti lavo, non ti vesto, non ti cambio e non ti sollevo, ho male a una mano”. E però capisci che i tuoi limiti stanno diventando un problema per entrambe. Adesso i mali sono passati, non faccio più fatica, perché faccio quello che voglio, e capisco che avevo bisogno di non aver più quella fatica lì a una certa età.

Io sono stata una madre abbastanza giovane, avevo 25 anni quando è nata Margherita, ma a 50... Comunque avevo capito che non ce la facevo più da sola, e nell’ultimo anno di vita di Margherita ho preso una persona che mi aiutasse nel quotidiano. Anche se è difficile delegare, perché anche per Margherita era importante che facessi io. Infatti non mi sono mai fatta sostituire, mi facevo solo affiancare. Lasciare la cosa in mano d’altri non mi era possibile. Gli stessi infermieri del domiciliare lasciavano a me alcune operazioni. Avevo firmato una cartella clinica dove dicevo che avrei fatto io le medicazioni e sono manovre abbastanza complicate, bisogna essere precisi, per il Cvc (catetere venoso centrale) bisogna fare tutto con guanti sterili...

Aveva un sondino?

Prima ha avuto la Peg, che è un sondino che va direttamente nello stomaco, che però le dava grandi disturbi, per cui, dopo, siamo passati al Cvc, che alimenta direttamente in vena. Per i problemi alla schiena, s’era prodotta una lacerazione in una piega dove la pelle si macerava; poi ha dovuto fare una seconda bonifica della bocca perché aveva un bruxismo (cioè digrignava i denti) quasi continuo e una osteite dei mandibolari. Poi le hanno tolto e sostituito il primo Cvc perché c’era un’infezione che non guariva. Le hanno messo temporaneamente un catetere nel collo, quindi il secondo Cvc, che una sera si è bloccato e io non riuscivo a sbloccarlo, per cui via al pronto soccorso, poi... potrei continuare; insomma, un sacco di guai collaterali.

Lei stava peggiorando...

Stava diventando una cosa straziante... Io mi chiedevo: “Che senso ha rispetto alla qualità della sua vita?”. Le abbiamo dato due anni brutti, però, forse anche per non colpevolizzarmi troppo, mi dico che ne avevamo bisogno. Non sei mai pronta a veder morire un figlio, e due anni fa io non ero pronta. Quando è successo, i dubbi non li avevo più. E l’ho lasciata andare, ho fatto una scelta che voleva dire che Margherita moriva. Margherita è morta in casa. Ma non devi avere dubbi, e per non averli devi arrivare a dire: “Basta, adesso la si lascia stare”. Io prima non avrei potuto fare questa cosa. Ora non ho nessun pentimento. Questo è importante: capire se e quando diventa accanimento. E da quel momento sarebbe stato accanimento.

Sette mesi prima che morisse Margherita è morta mia madre. Già, perché, nel frattempo, a te succedono le cose che succedono a tutti. E anche mia madre ha fatto molta fatica a morire. È stata malissimo quando già anche Margherita stava molto male. Non ricordo esattamente se erano i tempi della Englaro, però, tutte le volte che c’era una storia di questo genere, che ti richiama al problema del fine vita, c’era un coinvolgimento e anche un pathos grande sul che fare, su cosa sia meglio. Non servirà comunque, ma ho fatto un testamento biologico e Federico sa dov’è...

Per fortuna è arrivato Federico

Adesso sono quasi due anni che è successo. La tua vita quotidiana si è assestata?

La prima cosa che mi viene da dire è che è una vita comoda, probabilmente perché prima avevo una vita molto scomoda. Avevo degli arretrati tali per cui posso concedermi un po’ di comodità senza colpevolizzarmi. Sono abbastanza cambiata: sono diventata un po’ pigra, di una pigrizia che sconfina nell’indolenza. Prima, anche per un cinema, era un tempo sempre conquistato: se avevo due ore, cercavo, a viva forza, di farci stare un cinema. E tutto doveva essere organizzato al minuto. Adesso mi dico: “Quasi quasi oggi pomeriggio potrei andare al cinema”, poi: “Casomai vado al prossimo spettacolo”, e alla fine non ci vado. È come se a vessi staccato una spina a 25 anni e l’avessi riattaccata a 52. Ho ritrovato una routine, potrei dire alla Moretti: “Faccio cose, vedo gente”...

Il fatto di avere un altro figlio, Federico, è stato importante?

Non so come facciano quelli col figlio unico! Anche perché, se hai un figlio handicappato, comunque ti colpevolizzi. Leggevo che perfino i genitori di un figlio down, dove non è certo colpa tua se un cromosoma è anomalo, si colpevolizzano. Figurati nel caso mio, che non si è mai saputo perché Margherita fosse così. Ma se tu hai fatto anche una cosina fatta bene, che cresce, che va, che parla, il tuo amore un poco vien compensato. Ma quando è nato Federico, io non sapevo ancora che Margherita era malata. Per cui il primo anno di vita di Federico, non l’ho pensato e programmato come una compensazione. Lei si è ammalata quando lui era già bello che svezzato. Almeno quel tempo lì gliel’abbiam dato. Poi certo, Federico è stato investito di un’aspettativa, è diventato la luce dei miei occhi, perché è stato lui a impedirmi di andare con tutti e due i piedi dentro all’handicap o alla malattia... Poi hai il problema di salvaguardare il figlio “normale”, perché non può non esserci dentro anche lui, nella situazione. Io spero di averlo abbastanza salvaguardato. Ma c’erano delle priorità assolute con lei e su quelle non si discuteva; ma nello spazio che rimaneva ho cercato che ci fosse un tempo esclusivo per lui. Alle elementari, per esempio, lei era inserita in un tempo pieno, e per lui ho fatto apposta la scelta del tempo normale, che lui chiamava “il tempo vuoto”, perché il “pieno” era quello della sorella...

La mano di Margherita

Ora c’è un grande vuoto. Qualcosa di intangibile che mi manca, ma forse è proprio la fisicità. Delle volte non ricordo più com’è la sensazione di toccare la sua pelle. E dire che delle notti dormivamo tenendoci per mano. Gli ulti¬mi dodici anni della sua vita, dai 14 fin quasi ai 26, ha dormito con me. Era nata come esigenza, ma a me piaceva. Ecco, cercare la mano, cercare le gambe, quello mi manca. Mi manca la sua mano. Margherita aveva una pelle bellissima, anche nel viso. Era particolarmente bellina. In quello era stata fortunata: alcuni portano l’handicap scritto in faccia, lei no.

Una volta, una dottoressa dell’Ospedale Maggiore, che ci ha molto aiutato, aveva cominciato a raccogliere delle testimonianze di madri e mi chiese di scrivere qualcosa della mia esperienza con una figlia disabile. Allora scrissi che io ero sì, madre di Margherita, ma che non potevo prescindere dall’essere madre anche di Federico, e dicevo che, mentre l’amore per un figlio che cresce è l’amore per qualcuno che cambia, a cui devi dare autonomia, con Margherita rimaneva quell’amore viscerale che si ha per i piccolissimi, che dipendono da te in tutto. Chi ha avuto figli lo capisce, è proprio una cosa fisica... Io l’ho amata tanto Margherita, e avendola amata tanto, mi manca tanto. Allo stesso tempo, però, il fatto di averla amata tanto mi ha aiutato, quando non c’è stata più. È un po’ come se ci fossimo lasciate in pace, cioè ci fossimo salutate in una situazione di pace. E questo, rispetto a un addio, per me è molto importante.

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