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QT n. 9, settembre 2013 La storia

Lo strano clima di piazza Taksim

Resoconto di 4 giorni passati ad Istanbul, fra proteste che non si placano e una surreale normalità

Non esiste un modo per spiegare piazza Taksim senza utilizzare il concetto di caos. È in questa immensa spianata di cemento nel centro del quartiere di Beyoglu, infatti, che per anni è avvenuto l’incrocio casuale e incessante delle tante facce di Istanbul. Fisicamente, la piazza segna il confine tra la Istanbul dei turisti diurni e festaioli notturni, identificata con la lunga via Istiklal, e la nuova metropoli globalizzata, fatta di grattacieli ed alta finanza. Ma piazza Taksim è anche attraversata quotidianamente da migliaia di persone provenienti dai quartieri più poveri della città, che raggiungono il luogo di lavoro in centro, dopo traversate sui mezzi pubblici o sui trasporti privati collettivi (dolmu?) che possono durare anche diverse ore. Il parco Gezi, piuttosto piccolo, posto in mezzo alla piazza, ha sempre rappresentato per tanti un punto di calma nel mezzo di questo turbinio umano.

Tornando in piazza Taksim lo scorso 4 di luglio, la forte impressione è stata che qualcuno volesse mettere ordine nel caos. Erano infatti varie centinaia i poliziotti, in tenuta antisommossa e armati fino ai denti, che stazionavano stabilmente nella piazza. Benché la vita continuasse frenetica e regolare, l’esistenza di uno stato d’emergenza era evidente. Pochi giorni prima, la polizia aveva ripreso il controllo del parco Gezi, fino agli ultimi giorni di giugno occupato da una tendopoli di dimostranti.

Un’occupazione iniziata il 28 maggio, da parte di una cinquantina di ambientalisti preoccupati per il nuovo progetto del governo dell’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo), che prevede l’abbattimento del parco e la costruzione al suo posto di un’area pedonale, di un centro commerciale interrato e di una riproduzione delle caserme militari ottomane presenti nella piazza fino al 1940. Un concentrato delle politiche di questo partito, tutte dirette alla creazione di un’economia di stampo neoliberale e di una grandeur che richiami più l’identità mussulmana del passato che non quella laica e militarista del presente. Ed anche un chiaro simbolo aggregatore per tutti coloro che verso queste politiche provano quantomeno diffidenza. Che si sono infatti radunati, a Gezi ed in molti altri luoghi di Istanbul e del paese, per protestare contro la distruzione di questo piccolo polmone verde in mezzo al cemento e contro decine di altri provvedimenti, quali la stretta contro il consumo di alcool e tabacco, di un governo visto sempre più come religioso nella più retrograda delle forme ed autoritario.

Proteste che il premier Recep Tayyp Erdogan ha subito ridicolizzato e che la polizia ha represso a colpi di gas lacrimogeno, causando la morte di cinque giovani manifestanti e di un poliziotto. Fino allo sgombero del parco e alla militarizzazione di piazza Taksim. Una militarizzazione che ha interessato anche le vie circostanti alla piazza, con la creazione di una vera e propria zona rossa, con blindati e posti di blocco presenti in tutte le vie d’uscita.

La dimostrazione di forza e la creazione di uno stato d’emergenza non sono però riuscite a fermare le mobilitazioni. Me lo chiarisce, a pochi metri di distanza dalla piazza, all’inizio di via Istiklal, un gruppo di ragazzi che, senza timore e con un senso d’urgenza, tiene un banchetto dove si distribuiscono volantini e si vendono magliette con slogan contro il governo. “Vogliamo la democrazia” - dice il loro striscione. “Siamo i Genç Turk (giovani Turchi), siamo con la rivolta dall’inizio, dalle prime tendopoli, e saremo per le strade fino a che la situazione non cambierà” - mi dice uno di loro.

Nei giorni prima dell’8 luglio, giorno della riapertura del parco Gezi al pubblico, gli eventi si intensificano. Il 6 luglio poche migliaia di manifestanti entrano provocatoriamente in piazza Taksim con in mano delle pistole ad acqua e vengono caricati dalla polizia, che fa diversi feriti. Il giorno dopo, migliaia di persone partecipano alla prima edizione del Festival dell’uomo di gas lacrimogeno sulla sponda asiatica di Istanbul, rinvigorendo la sensazione che siano davvero in tantissimi a spalleggiare la protesta. Il clima rimane teso, si diffondono voci su alcuni sostenitori del governo avvistati in piazza Taksim armati di machete in cerca di dimostranti, fatto confermato da alcuni video messi in Rete. Piazza Taksim conosce un’irregolare irrequietezza, alternando momenti di apparente ed affollata normalità a scontri di piazza e a situazioni di surreale quiete, dove un luogo abituato alle folle si ritrovava improvvisamente vuoto.

È in una di queste situazioni che incontro Ay?a, giovane laureata in giurisprudenza con molta voglia di parlare delle proteste: “Alla fine, il governo ha mostrato il suo vero volto. - mi spiega - Il loro messaggio è chiaro: piazza Taksim è nostra. Se qualcuno mette un piede qui dentro cercando di portare un messaggio politico, anche se ha in mano una pistola ad acqua, inizia la violenza. E quando inizia una carica, alla polizia non importa chi si trovi in piazza, loro picchiano, lanciano lacrimogeni e usano gli idranti contro chiunque. Noi però non ci fermeremo. Anche un tribunale ha dichiarato illegittimo il progetto dell’AKP su Gezi. Il governo lo ignora, ma vogliamo costringerlo a rispettarlo”.

Le conseguenze di tutto questo sono chiare l’8 luglio. Cerco di avvicinarmi a piazza Taksim per osservare la riapertura del parco, ma un gruppo poliziotti, tutti, tra l’altro, giovanissimi, mi ferma. È in corso una manifestazione che critica la riapertura al pubblico di un parco che si vuole demolire. Tutti i posti di blocco intorno alla piazza sono attivati, è impossibile entrare e, soprattutto, uscire dalla piazza e da via Istiklal. Alla fine della giornata, il bilancio sembra essere attorno ai sessanta feriti tra i manifestanti.

Il parco verrà infine riaperto il giorno dopo, solo per essere tenuto sotto continua sorveglianza. Il braccio di ferro tra governo e cittadinanza in protesta continuerà, come continua ancora adesso. Nel frattempo, tutto intorno, una città che non può smettere di muoversi ingloba le proteste nella sua quotidianità. È questo, forse, l’aspetto più surreale della vicenda. “Se uno non ha problemi con i lacrimogeni, non ci sono grandi rischi negli scontri. Io indosso la mia maschera antigas e continuo la mia vita normale” dirà un ragazzo. E succede effettivamente così.

Non appena si alza il fumo dei gas, i negozi di via Istiklal tirano nuovamente su le loro saracinesche. Le discoteche si ripopolano. La sola piazza Taksim rimane vuota per qualche ora, per poi arrendersi al suo ruolo di zona di passaggio. Un atteggiamento apparentemente non dovuto all’indifferenza. L’appoggio, almeno parziale, alla protesta, sembra diffuso tra gli abitanti di Istanbul, come ha dimostrato anche il suggestivo inizio del Ramadan, dove i banchetti del pasto serale, disposti lungo tutte le vie del centro e partecipatissimi, sono stati un’occasione per sfidare i blindati della polizia. Un comportamento che può anzi indicare la non accettazione dello stato d’emergenza. E che può, alla lunga, favorire il movimento. Che non sarà forse in grado di salvare il parco Gezi. Ma può davvero continuare a mettere in difficoltà il governo. E che sta ricominciando a mobilitarsi in settembre, seriamente intenzionato a rimanere in strada finché le cose non cambieranno.