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Ecoturismo splendido ma fragile

L’Uganda pacificata si affaccia alla modernità. Le grandi emozioni fornite da una natura oggi valorizzata; ma subito pesantemente insidiata.

Dentro il Murchinson Falls Park: automezzi della Compagnia petrolifera.
Dentro il Murchinson Falls Park: automezzi della Compagnia petrolifera.
Dentro il Murchinson Falls Park: automezzi della Compagnia petrolifera.
“Guardo con lo zoom: il primo piano mi mostra un muso disperato, uno sguardo tragico.“
Una zebra finita nelle sabbie mobili.
“Ed ecco sul display apparire volti umanoidi stranamente perplessi, quando non melanconici...”
Queen Elizabeth Park: scimpanzè
Dorothy, ranger al Lake Mburo Park.

Murchinson Falls Park, 4-5 agosto 2013.

Stiamo lasciando Fort Murchinson, suggestivo resort affacciato su un’ampia ansa del Nilo Alberto: l’Africa ci è finora apparsa nella sua veste più solita, lunghe dissestate strade di argilla rossa, una intensa vita sociale ai bordi, persone che si spostano, si intrattengono, trasportano; le scuole con gli allievi nelle variegate divise multicolori; i tanti negozietti elementari, una baracchetta o una capanna; le biciclette, spesso spinte a mano perchè sovraccariche all’inverosimile di caschi di banane, canne di bambù, sacchi di mais, taniche d’acqua. Ma si vedono anche i primi segni di una discreta modernità: oltre le bici, le motociclette, lente, rigorosamente montate da tre persone; o i vestiti, non stracci ma camicie e felpe negli uomini, e gonne e camicette in quelle donne che non vestono i colorati abiti tradizionali; e poi ancora le scuole, che sono proprio tante, affollate, in edifici dignitosi, con insegnanti ben vestiti, bambini puliti. L’Uganda, lentamente sta cambiando.

Ora però ci allontaniamo, per un po’, da questa diversa, viva e vivace umanità, per immergerci, con il safari, in un’altra dimensione: il contatto ravvicinato con i grandi animali selvatici, una natura spettacolare eppure, oggi, fragile, che infatti da noi da secoli non c’è più.

Siamo dentro il Parco: al bordo della pista corre una donna, bianca, 45-50 anni, scarpette e tutina da jogger; cinquanta metri dietro la scorta un pick up verde, della Nissan, guidato ovviamente da un nero. Un’apparizione neo-coloniale. Dopo alcuni minuti un altro jogger, maschio, 50-55 anni, seguito da altro pick up verde. Ma cosa succede?

“Sono manager - risponde Manuel, la nostra guida - manager della Compagnia”. La Compagnia petrolifera, una joint venture che fa capo alla Total”.

“Ma dentro al Parco?”

“I pozzi sono dentro il Parco”

L’incontro con gli animali ha il noto, struggente fascino. Questi esseri per noi primordiali, che ti guardano a lungo, curiosi e intimoriti, antilopi di tutte le dimensioni, scimmie, giraffe. I bufali, possenti, da cui è bene stare alla larga. Gli ippopotami che quando ti avvicini con la barca di ferro ti fissano, prima di immergersi. Un gruppo di elefanti che va ad abbeverarsi, quando sopraggiunge un nuovo arrivato, lo studiano, lo riconoscono come della famiglia, lo accettano. A fronte delle cascate, dove le barche causa la forte corrente devono arrestarsi, su un masso prende il sole un coccodrillo, la bocca spalancata, immobile, sembra si compiaccia, più fotografato di una star, dell’attenzione delle imbarcazioni che gli ruotano attorno.

“È tutto veramente emozionante” mi dice Stefano, che è al suo primo safari.

Sulla pista compare un pick up verde. Poi un altro e un altro ancora. Il percorso nella savana è ondulato, il tracciato molto visibile, la teoria dei tre mezzi, inquietante, la vediamo a lungo. Poi, sulla pista sabbiosa, appare un camion. Un secondo, un terzo. Poi un articolato con una grande gru, poi altri camion, tanti, a formare un ingorgo. È la Compagnia.

C’è una rete metallica lunga centinaia di metri: recinta l’aeroporto della Compagnia. La pista ha molte, improvvise diramazioni, presidiate da cartelli minacciosi “NO ENTRY”.

“Dei soldi del petrolio, a voi ugandesi, ne rimangono?” chiedo a Manuel.

“Sì, tanti”.

“Ma l’Uganda cosa sceglie, specie nei Parchi, l’economia dell’ecoturismo o quella del petrolio? E i politici, che dicono? Che si possono avere entrambi?”

“Proprio così”. Manuel mi guarda con sguardo furbo: “I politici dicono proprio questo”.

“E tu che pensi?”

“Che vincerà uno dei due, noi o loro, il turismo o il petrolio”.

“Appunto. E chi vincerà?”

Lo sguardo si fa mesto: “Vinceranno loro”.

Bwindi Impenetrable Forest, 8 agosto

Arrivati in quota con le jeep, e poi a piedi tra poveri paesini e piccoli campi di montagna, ci siamo inerpicati attraverso la foresta, fitta, fino a raggiungere i 2.900 metri. Siamo in otto, accompagnati da quattro ranger armati; più avanti i battitori comunicano: abbiamo individuato i gorilla, abbassatevi un po’ e ci incontriamo.

È il momento clou del viaggio; ma fatico a entrarvi in sintonia: la luce è poca o a lame vivide, gli animali sono neri, vedo poco, le foto sono un disastro. Due ragazze spagnole, armeggiando rapide tra opzioni e impostazioni di fotocamere che costano la metà della mia, ottengono sui display immagini vivaci di quello che io non riesco proprio neanche a vedere. Sono un po’ frustrato.

Poi i battitori aprono con i machete un breve percorso aggirante: mi trovo a pochi metri da un gorilla sdraiato nella siesta. L’impressione è spiazzante, l’animale mi appare grandissimo, i muscoli di torace e braccia smisurati, sono di fronte a una forza tranquilla, ma immensa. Guardo, sollevato, il fucile del ranger. “Ma... è grossissimo!” gli dico. “Grosso? Ma no! - risponde ridendo - È un ragazzino”. E quasi a confermarne le parole, il gorilla si mette a giocherellare. Poi da più sotto arriva il Silver Back - Schiena Argentata -, il maschio dominante. Grande il doppio del ragazzino, chiarisce che lì a comandare è lui: rapido batte alcuni colpi sullo smisurato torace “dudududum”. Una breve dimostrazione di un’immane possanza, ampiamente vista nei documentari, ma che dal vivo lascia attoniti. È una forza della natura, viva, vera, qualcosa come King Kong o Hulk, ma qui siamo nella realtà.

Le istruzioni impartite prevedono, in caso di aggressività del gorilla, che ci si metta in ginocchio, la testa bassa, con le mani a coprirla in gesto di totale sottomissione: l’umiliazione dell’uomo di fronte all’animale. Se non bastasse, interverrebbe il ranger, un colpo di fucile in aria, e poi, extrema ratio, a una gamba dell’animale, che però non va mai ucciso. Non occorre niente di tutto questo: il Silver Back ha voluto solo ribadire la propria autorità; dopodiché si defila.

Rimaniamo di fronte al resto del gruppo, intenti a giocare i piccoli, a riposare gli adulti. Cerco di coglierne le espressioni: non ci riesco certo a occhio nudo, né con il teleobiettivo, ma riesco a trovare la giusta combinazione di settaggi per ottenere primi piani nitidi. Ed ecco sul display apparire volti umanoidi stranamente perplessi, quando non melanconici. Non capisco. Ma mi intenerisco. Bisbiglio qualcosa ai miei amici, che confermano: “Sì, sono melanconici.”

Le guide patinate pudicamente si limitano ad alcuni cenni, ma con Manuel la questione l’affrontiamo di petto: il salvataggio dei gorilla ha comportato l’espulsione dalla foresta dei Pigmei, loro cacciatori e concorrenti nella ricerca del cibo. Come peraltro prevedibile, fuori dal loro mondo i Batwa (Pigmei ugandesi) non hanno saputo riconvertirsi da cacciatori ad agricoltori nelle terre assegnate. Di qui un degrado culturale e sociale, percepito e anzi acuito dal resto della popolazione ugandese: pure a noi è capitato di sentire cenni di scherno rispetto ai Batwa, ovviamente fannulloni e ubriaconi. Si cerca di rimediare anche qui con l’ecoturismo, organizzando trekking a pagamento presso le tribù Pigmee, non so con quali esiti.

Manuel invece ci parla, con onestà e tristezza, di grevi forme di razzismo nero, che sembrano accomunare i Pigmei all’altro ultimo popolo di cacciatori-raccoglitori, i Boscimani dell’Africa australe.

“Alcuni anni fa - racconta - si era diffusa, non so come, una ‘leggenda africana’ secondo la quale un ammalato di Aids, o un sieropositivo, sarebbe guarito, se avesse fatto sesso con un pigmeo”. Cosa di facile realizzazione: i pigmei, altrimenti disprezzati, non credevano vero di essere desiderati al punto di poter fare qualche soldo prostituendosi. “Naturalmente nessun ammalato o sieropositivo guarì - conclude Manuel - Ma i Pigmei ne uscirono decimati”.

Abbiamo salvato (forse) i gorilla, per condannare i Pigmei?

Lake Mburo Park, 10 agosto

Oggi andiamo a piedi nella savana, scortati da Dorothy, giovane ranger armata di fucile, competenza, entusiasmo. È un piacere incontrare nei parchi queste giovani donne, operatrici o stagiste dell’Università di Kampala, sul campo a declinare nella pratica le diverse discipline, dalla biologia al management, connesse con l’economia ecoturistica. Belle, determinate, positive, sono l’immagine plastica di una nuova Africa possibile. Una scommessa entusiasmante, ma certo non facile.

All’orizzonte, la sera prima, lontane bruciavano le colline: due grandi incendi a forma circolare, che rischiaravano la notte. E inquietavano gli animi.

“Sono stati incendi naturali?” chiedo a Dorothy.

“No” - scuote il capo.

“Li avete accesi voi? Per rinnovare la vegetazione?”

“Noo! I nostri sono più piccoli. E controllati”.

“E allora?”

“C’è chi non vuol bene al Parco”.

La savana, a piedi, si presenta in un’altra veste. Privato della corazza del fuoristrada, della potenza del motore, tu uomo sei un animale tra gli altri. Con loro tu hai così un rapporto paritario: li guardi negli occhi alla stessa altezza, assieme si decide se la distanza di sicurezza è adeguata, se è meglio che la aumenti tu (con elefanti e bufali) o che la aumentino loro (i vari tipi di antilopi).

Il terreno ti ricorda in continuazione di quanto la natura sia un intricato connubio di vita e di morte. La morte appunto: nella nostra società nascosta e recintata, nei cimiteri, negli ospedali, nei macelli. Nella savana invece la incontri di continuo, fonte di nuova vita: ossa sparse ovunque, crani, scheletri; la testa non spolpata di un facocero, che sembra una maschera greca; il grande scheletro di un ippopotamo “venuto qui a morire, distante dal fiume - spiega Dorothy – L’ho visto trascinarsi fino a questo punto, ferito a morte dopo un duello, perso, per la supremazia nel branco”.

Dal loro branco sono stati allontanati anche, perché vecchi o ammalati, alcuni bufali. Li vediamo tenendoci a distanza, sono molto pericolosi. Stranamente magri, eppure la vegetazione è rigogliosa. “Non è questione di cibo - risponde Dorothy - ma di frustrazione, di stress. Espulsi dal branco, si sentono alla deriva”. Guardo con lo zoom: il primo piano mi mostra un muso disperato, uno sguardo tragico. Sbagliamo ad attribuire a uomini e animali un fondo di sentimenti comuni?

Più avanti un altro gruppo di perdenti ed espulsi, ma questi vitali. Sono i maschi degli impala (piccole, eleganti gazzelle) che diventati adulti non hanno retto lo scontro con il maschio dominante e, cacciati dal branco, si sono riuniti in una comunità di soli maschi: per sopravvivere, sette otto paia di lunghe corna aguzze intimoriscono anche il leopardo; e per preparare la rivincita, continuano ad allenarsi e combattere tra loro, in attesa dell’inevitabile declino di qualche maschio alfa.

Sono le spietate leggi della natura, che continuiamo a incontrare: “Attenti a questo terreno: lì, subito prima della palude - il colore è solo un poco più scuro - ci sono le sabbie mobili”. Una zebra non se n’è accorta in tempo: la carcassa giace riversa, semisprofondata. In alto si rincorrono due uccelli bellissimi, di un fantastico colore azzurro. Ma sotto, un nuovo dramma: un bufalo che sembra sdraiato, e invece ha la testa immersa nel fango: “Ieri non c’era, deve essere accaduto stanotte”.

Venti metri più avanti, sul terreno solido, un altro bufalo: “Questo è stato ucciso”.

“Dal leone?”

“Dal leopardo”.

“Ma il bufalo non è troppo grosso per il leopardo?”

“Certo, ma solo se è in forze, non quando è vecchio o ammalato. Guardate qui - giriamo attorno alla carcassa - non ci sono le orecchie: il leopardo ne è ghiotto, e inizia sempre da loro il suo pasto. Mentre invece il leone predilige la carne dietro ai lombi, e qui il posteriore è intatto”.

Con Dorothy parliamo dei problemi del Parco.

“Non ci sono leoni...”

“Così dicono le guide. In realtà ne abbiamo uno, un maschio”.

“Un maschio solo? Perchè non gli portate una compagna?”

“Non è così semplice. Ci stiamo ragionando”.

“È un problema portare la leonessa?”

“È un problema far accettare i leoni. D’altronde il maschio da solo è irrequieto, continua a spostarsi alla ricerca di una femmina. Stiamo valutando i pro e i contro”.

Il problema maggiore sono gli armenti della popolazione ai bordi del parco. Bestiame del tutto indifeso rispetto ai grandi predatori. E che tuttavia viene fatto pascolare anche dentro il Parco, tra la sua abbondante vegetazione”.

“Non è pericoloso?”

“Molto. Anche per i mandriani. Possibili vittime dei bufali e dei leopardi. Abbiamo trovato diversi resti umani, a iniziare dai teschi”.

“E continuano a venire nel Parco?”

“Chi decide dove far pascolare le bestie sono gli allevatori, chi le porta al pascolo sono i mandriani. E non sono le stesse persone”.

Dorothy non polemizza, non denuncia. Quando parla di fatti che le danno dispiacere, addolcisce la voce e chiude la frase con un sorriso. Però noi non abbiamo difficoltà a pensare agli allevatori che insorgono contro il Parco. In nome dei poveracci da loro stessi mandati allo sbaraglio.

L’Uganda oggi

L’Uganda è un Paese del centro Africa attraversato dall’Equatore, 236.000 kmq, in cui vivono quasi 30 milioni di abitanti. Situato in gran parte tra i 1000 e i 20 00 metri sul mare, bagnato da molti laghi (tra cui il Vittoria, il secondo del mondo) e corsi d’acqua (tra cui il Nilo, comprese le mitiche sorgenti), gode di un clima favorevole e di ottime condizioni per l’agricoltura, che a tutt’oggi fornisce il 40% del reddito nazionale.

Purtroppo il paese è stato funestato, fin dai tempi del difficile processo di indipendenza, da guerre civili e dittature di inusitata ferocia (da Idi Amin che mangiava i suoi avversari, alle milizie di bambini soldato, vedi “Judith, un rapimento lungo nove anni” su QT n. 13 del giugno 2004), che per 25 anni hanno terrorizzato e stremato la popolazione. Dal 1986 però, con la leadership di Museveni - troppo lunga, non pienamente democratica, ma comunque pacificatrice - il Paese si è avviato alla normalità, e anche le attività dei vari eserciti operanti sui confini sono state progressivamente azzerate. Di questo lungo periodo di stabilità si è giovata l’economia, in crescita da 25 anni al rassicurante tasso del 5% annuo. L’agricoltura si è in parte rinnovata, affiancando alle colture tradizionali quelle destinate all’esportazione (tè, caffè, tabacco), gestite sia da cooperative che da proprietari indiani a suo tempo scacciati e ora ritornati. La pesca nei grandi laghi continua a fornire un buon reddito. Il turismo e i giacimenti di materie prime (petrolio anzitutto, ma anche oro) costituiscono nuove importanti fonti di reddito, che comportano però joint ventures con compagnie straniere.

Persistono gravi problemi di infrastrutture: le strade asfaltate sono poche e le nuove vengono costruite secondo criteri di grandeur pubblicitaria (in favore dei promotori internazionali) più che di durabilità nel tempo; acquedotti e canalizzazioni sono praticamente inesistenti, buona parte del tempo della popolazione viene impiegato nell’approvvigionamento dell’acqua, per fortuna abbondante.

Enfasi viene invece riversata sull’istruzione, a tutti i livelli, dalle elementari in tutti i villaggi all’università nella capitale Kampala: visitare una piccola scuola o parlare con un giovane laureato è una bella esperienza.