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QT n. 12, dicembre 2013 La storia

Laura non c’è...

È andata via quattro anni fa per fare la volontaria in un carcere messicano, ma nella sua terra Laurita è quasi un’icona.

Laurita è nata a Preore, un paesino di 400 anime all’imbocco delle Giudicarie Esteriori dove non batte mai il sole, ma battono, eccome se battono, nove mesi di inverni rigidissimi e tre di frescura. Non sappiamo se la meteorologia, o l’orografia c’entrino qualcosa con la presenza di un volontariato attivo, ma a Preore sono in tanti ad operare nei Paesi in via di sviluppo. Non sappiamo se questo sia da mettere in relazione con l’esigenza di scaldare il cuore, oltre che la mente e le membra, sappiamo solo ciò che vediamo, e per quanto riguarda Laura Scalfi, quel che apprendiamo ha dell’incredibile.

Laurita (così la chiamano a Coatzacoalcos) entra ed esce dal carcere più affollato e pericoloso del Messico, nello Stato di Vera Cruz, come noi entriamo ed usciamo dalla scuola dei nostri figli. Si interfaccia con il boss del narcotraffico locale, con i secondini di un istituto di pena di 1870 detenuti, con le famiglie dei carcerati, per la maggior parte ragazzi giovanissimi, nati e cresciuti dove la vita umana conta meno di un detersivo, che devono acquistare di tasca loro per non finire sotto tortura. Nessuna organizzazione umanitaria, nessuna onlus, nemmeno Amnesty International, riesce ad entrare in quei luoghi, dove l’unica legge che esiste è la negazione più disumana di qualsiasi tipo di legge.

Ma la cosa incredibile è che Laura sorride, in quel suo corpo asciutto, il viso scavato. Sorride sempre, un sorriso contagioso, quasi raccontasse una storia d’amore, ma non per Lalo (che non è il suo compagno ed è stato solamente un tramite), ma un sentimento altrettanto forte, ingigantito, quasi inconsapevolmente, giorno dopo giorno, dal tentativo di opporre la non violenza ad un contesto dove la violenza è l’unica unità di misura delle relazioni.

“Come emissaria di qualche onlus, non mi avrebbero mai fatta entrare; se solo avessero minimamente sospettato che avrei potuto denunciare, o raccontare al mondo quel che accade là dentro, sarei già morta, o espulsa dallo Stato, oppure chissà... Non faccio politica, non giudico, non faccio domande, non entro nei rapporti tra le forze in campo. Sono entrata in carcere inizialmente per assistere Lalo, un amico messicano, che come tanti ragazzi è finito in carcere per futili motivi. Non fanno tante storie: sei su un autobus, c’è un posto di blocco, tutti fuori, perquisizione, spalle al muro e se non sei convincente su dove stai andando e cosa ci vai a fare, finisci dentro.

Lalo è un tipo ascetico, appassionato di meditazione; abbiamo viaggiato insieme in Nicaragua e Guatemala, è la persona più inoffensiva che conosca, un pacifista, eppure è finito in carcere. Da quel giorno è iniziata la mia avventura. Dapprima erano diffidenti, mi facevano spiare per vedere se ero collegata a qualcuno, quando avvicinavo altri ragazzi detenuti mi tenevano sotto stretta sorveglianza per capire di che cosa parlavo, perché riuscivo a cambiare il loro umore, ad attenuare l’aggressività. In realtà non facevo niente di speciale, ascoltavo, li tenevo per mano, tenevo i contatti con le famiglie”.

Qual è il pericolo più grande?

“La droga, il rischio per chi ne fa uso è decuplicato rispetto a fuori. Le carceri, come qualsiasi altra istituzione sono sotto il controllo dei cartelli dei narcos che agiscono con la complicità delle autorità locali. Ogni Stato della federazione messicana è sotto il controllo di un cartello. Gli ordinamenti e le leggi variano da stato a stato. I nostri detenuti, se non hanno i soldi per pagare la droga, devono trovarli, altrimenti saranno punizioni corporali pesantissime.

I secondini entrano nelle celle di isolamento con le mazze da baseball e le punizioni avvengono per tanti motivi, non sempre legati alla droga. Spesso intervengono le famiglie pagando una specie di riscatto, ma spesso anche le famiglie arrivano a un punto di non ritorno e allora sono guai”.

Come riesci a sottrarli alle torture?

“Non so lo, ogni volta mi invento qualcosa, faccio delle collette, all’inizio compravo qualcosa da offrire in cambio della punizione, a volte mi offro come garante perché il debitore si riscatti facendo dei lavori. Non c’è un modo, ogni volta lo devi trovare e non sempre lo trovi. I soldi in carcere regolano tutto, ogni cosa costa di più, tutti speculano su tutto. Per contro anche i carcerati possono intraprendere piccoli commerci con i manufatti che realizzano. Molti spacciano, altri pensano solo alla droga, hanno una vita totalmente sballata, per loro riesci a fare ben poco, anche se continui a provare”.

Ma tutto questo ha dei costi: come riesci a farvi fronte?

“Dopo un primo viaggio nel 2003 sono tornata a casa, ho lavorato per due anni e mezzo all’ANFFAS di Tione, ho messo da parte dei soldi e nel frattempo mi sono creata una rete di contatti in Italia, amici, parenti, conoscenti, che fanno donazioni spontanee. Persone sensibili e generose che informo puntualmente anche dal Messico, ma certezze non ne ho mai: oggi ci sono, domani non so. Ho fatto la pendolare tra Italia e Messico per qualche anno”.

Ci sono donne? Quali sono le loro condizioni?

“Sono circa 70-80 e le condizioni ve le lascio immaginare. Alcune si prostituiscono all’interno del carcere e questo significa il proliferare di malattie. Fisicamente i reparti sono separati, ma basta pagare e di notte si trasferiscono nei reparti maschili. Tutto avviene con una promiscuità avvilente, indescrivibile. Poi si creano anche coppie fisse, che mettono al mondo dei figli, che restano nel carcere fino a 5 anni e se non c’è un aiuto da parte delle famiglie finiscono negli orfanotrofi. Ma anche negli orfanotrofi le donne devono pagare per il loro mantenimento e quindi in carcere lavorano, fanno piccoli servigi di ogni genere per guadagnare qualcosa”.

Da quanto tempo sei stanziale nello Stato di Vera Cruz?

“Dal 2009; torno a casa per un mese o poco più, per stare un po’ con i miei e poi riparto, da poco sono riuscita ad ottenere dal direttore del carcere una sala di meditazione per gli incontri dove facciamo meditazione, yoga, terapie di gruppo, un successo insperato, ed ho capito di essere solo all’inizio. In Italia dopo l’Istituto d’Arte Vittoria ho preso il diploma di educatore professionale, che oggi è una laurea breve e ho frequentato dei corsi anche in Messico. Art of Living è una scuola che insegna tecniche di respirazione e rilassamento. Ho fatto il primo corso e vorrei terminare con quello di istruttrice. Per il 2014 il mio obiettivo è creare una associazione che possa raccogliere fondi e magari in futuro dar vita ad una struttura di reinserimento. Vedere qualcuno che dopo aver attraversato sofferenze atroci riesce a riabilitarsi, ma fuori trova solo porte chiuse, è desolante”.

Qualcosa del genere accade anche in Italia, anche qui la condizione delle carceri è disumana, perché hai scelto il Messico?

“Non ho scelto io, probabilmente qualcuno ha scelto per me, è stato tutto così consequenziale... mi ci sono trovata, come se qualcuno sopra di me muovesse i fili. Non mi chiedo mai come possa accadere. Come non chiedo mai ai ragazzi perché sono lì, quali reati hanno commesso. Non mi aspetto nulla, non puoi farlo, certe situazioni sembrano senza uscita, ma poi le cose accadono ed io resto sempre spiazzata”.

Sei credente?

“Credo in Dio, non importa se cattolico, buddista, musulmano, induista o ebreo, nella mia vita c’è sempre stato. Te l’ho detto, le cose accadono e io non chiedo nulla, non mi aspetto nulla e quando riesco a scongiurare un dramma, a risolvere un conflitto, a tranquillizzare una famiglia, è adrenalina pura: mi sembra impossibile che sia accaduto, se non grazie all’aiuto di qualcuno immensamente grande”.

Non pensi mai a farti una famiglia, ad avere dei figli? A 36 anni sarebbe normale...

“Non ci penso perché non ne ho il tempo, la vita a Coatzacoalcos è talmente intensa e al contempo precaria che le tue esigenze passano in secondo piano. Le emergenze sono tante e tali da catapultarti ogni volta in qualcosa più grande di te, ci sono luoghi dove non esiste una quotidianità. A volte se non ci fossero le vicine di casa a prepararmi qualcosa di caldo mi dimenticherei perfino di mangiare, non so proprio come potrei fare a organizzare una famiglia. So che può sembrare strano, lo è anche per i miei familiari. Quando torno li vedo sempre più provati, vivono nella preoccupazione che possa accadermi qualcosa, che possa mettermi nei guai. E pensare che quando sono andata a Trento in convitto a studiare il primo anno delle superiori, piangevo tutti i giorni, lontano dalla mia mamma e dal paesello!”.

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Commenti (1)

BRAVA LAURA JFK

Semplicemente , brava Laura !
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