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QT n. 2, febbraio 2016 Monitor: Teatro

“My romantic history”

Due trentenni raccontano

Lucrezia Barile

Giovedì 14 gennaio sono andata a vedere uno spettacolo al Teatro Comunale di Pergine. Di solito prima di andare a teatro o al cinema cerco di non informarmi bene sulla trama di quello che vedrò, per non rovinarmi l’effetto suggestione, per non avere aspettative. Quindi ho letto superficialmente la sinossi dei vari spettacoli in programma in quella serata e sono rimasta colpita da una che recitava: “una generazione di trentenni insoddisfatti”, “ingenuità delle nostre fantasie”, “spietata ironia della vita”.

“My romantic history”

Ok, ho detto, le parole ingenuità, ironia, fantasia e spietata sono sufficienti per la scelta... e poi trent’anni, più o meno è la mia età. Confesso che sono un po’ allergica alle definizioni che siano di genere (gli uomini sono così, le donne al contrario sono colà) oppure che incasellino i comportamenti per età (gli adolescenti, i cinquantenni, i trentenni, e poi i cinquantenni e i trentenni maschi e i cinquantenni e trentenni femmine... come se ci fosse un palinsesto comune a tutti gli individui). Le trovo sgraziatamente ingiuste e riduttive, ma alcuni tratti comuni, mio malgrado, devo riconoscerli, più che altro per essere socialmente integrata in certe inevitabili quanto spesso noiose conversazioni occasionali. Per cui un po’ di pregiudizio ce l’avevo mentre guidavo per andare a vedere “My romantic history”. Pagato il biglietto ci fanno accomodare sul palco, dove i posti a sedere sono solo novanta, di fronte alla scena.

Oddio, penso, non sarà mica una di quelle cose che interagiscono col pubblico, che l’attore ti interpella e tu dici in maniera idiota la cosa che ti sembra più adatta alla richiesta, mentre in realtà sei in imbarazzo da morire e pensi che proprio stasera i capelli fanno schifo mentre tutti ti guardano. Ma era solo un mio timore. Dopo qualche minuto le luci si abbassano e quattro ragazzi entrano in scena ballando con aria confidenziale. La musica si interrompe appena uno di loro, Tom, comincia a raccontare ciò che gli è successo da quando è stato assunto in un ufficio.

Una sera dopo il lavoro è andato a letto con la sua collega Amy: niente di più che una serata di sesso senza alcuna intenzione di proseguire una storia seria. La frequentazione però continua e lui, trentenne navigato ed esperto di donne appiccicose e pretenziose, sa come fare in modo che lei di lì a poco lo lasci. Nel racconto affiora insistente il ricordo di un amore passato, che non gli dà tregua, l’archetipo della donna ideale.

Ci si appassiona alla storia del buffo e tutto sommato simpatico Tom, fino a quando non è Amy a raccontare la sua.

La narrazione riparte dall’inizio: sono gli occhi di lei a guardare, occhi diversi ma ugualmente viziati dal rimpianto di un tempo che fu. I due sguardi si uniranno solo alla fine a causa di un imprevisto che li costringerà a liberarsi dalle ossessioni e dalle difese di genere e a mostrarsi onesti e sinceri.

Il testo dell’inglese Daniel Craig Jackson, rappresentato per la prima volta dalla stessa compagnia AriaTeatro nel novembre del 2014, mantiene nella traduzione italiana l’ambientazione a Glasgow, ma tradisce nella versione tradotta dei riferimenti all’Italia. Potrebbe trattarsi in fondo di due comuni trentenni di qualsiasi paese occidentale, forse troppo comuni, forse troppo qualsiasi. Insomma, vista con un certo sguardo, quella raccontata è una storia che appiattisce le vicende umane, privandole di imprevedibilità e sottolineandone invece i luoghi comuni; la descrizione di una generazione di ragazzi diventati adulti, che ripercorrono inesorabilmente la tripletta “casa, ufficio, aperitivo”, rassegnati come se non ci fosse più niente da fare se non accontentarsi.

La mia indole allergica alle generalizzazioni avrebbe dovuto indignarsi. “Se non hai trovato il tuo partner fino a trent’anni, finisce che lo trovi sul posto di lavoro”, questa la convinzione (forse paura) a cui sarebbero rassegnati i giovani di una certa età.

A parte la contestabilità di questa idea, smentita probabilmente da molte storie personali, ciò che resta bene in piedi dello spettacolo è il gioco dei piani diversi, lo scambio degli sguardi lui/lei che, pur rischiando di scivolare in una banale contrapposizione di colori azzurro/rosa, tiene attenti e coinvolti gli spettatori: è proprio nel confronto contrapposto delle due storie banali che è possibile cogliere dettagli e realtà più sottili e profonde. Ma ciò accade soprattutto grazie alla notevole bravura e versatilità degli attori - Giuseppe Amato, Denis Fontanari, Alice Melloni e Paola Mitri - alla loro abile e divertente recitazione e alla regia di Chiara Benedetti. Così lo spettacolo funziona, è divertente, ci si appassiona alla storia, anche agli stereotipi che sono rappresentati e offerti in modo credibile e coinvolgente.

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