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Colombia: una pace col fiato sospeso

Le FARC e il governo colombiano hanno firmato accordi di pace. Ma tutto è appeso al risultato di un referendum indetto per il 2 ottobre.

Cristiano Morsolin

I colombiani amano le telenovelas e ogni sera possono scegliere tra gli unici due canali nazionali RCN e Caracol che presentano “Grupo Elite” e “Niña”.

Grupo Elite” racconta la storia di un gruppo della polizia nazionale che, insieme ai paramilitari del Clan Pepe, ha scovato e ucciso nel dicembre 1993 Pablo Escobar, il boss dei boss del cartello del narcotraffico di Medellin.

La telenovela “Niña” narra invece le vicissitudini di un’adolescente sequestrata e divenuta una baby guerrigliera che, fuggita dalla selva amazzonica, cerca con molte difficoltà di reinserirsi nella società come studentessa di medicina perché ha visto troppi bambini morire di fame e per mancanza di medicine nelle campagne abbandonate da uno Stato che non riesce neanche a difendere le scuole pubbliche dal fuoco incrociato dei gruppi armati illegali. Tanto per dire come decenni di guerriglia abbiano condizionato ogni aspetto della quotidianità, compreso l’intrattenimento.

Ma mercoledi 24 agosto le telenovelas sono state bruscamente interrotte da una notizia “storica”: all’Avana sono stati firmati gli accordi di pace definitivi tra il Governo colombiano e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC).

Anche chi, come me, da oltre un decennio vive nella regione andina, è però rimasto sgradevolmente colpito dal commento a questo accordo di Ivan Marquez (nome di battaglia del capo delle FARC Luciano Marín Arango), che ha detto fra l’altro: “Abbracciamo con tutta la forza del nostro cuore il popolo della Colombia, per ripetere ad esso che la lotta guerrigliera che è stata messa in atto in tutti i punti della geografia nazionale non ha avuto altra ragione se non la nobilitazione della vita umana, nel quadro del diritto universale che legittima tutti i popoli del mondo a ribellarsi con le armi contro l’ingiustizia e l’oppressione. Purtroppo, in ogni guerra, ma specialmente in quelle di lunga durata, si commettono errori e si danneggia involontariamente la popolazione. Con la firma dell’accordo di pace, che comporta un impegno implicito di non ripetizione, speriamo di allontanare definitivamente il rischio che le armi vengano rivolte contro i cittadini. La pace è per tutti e abbraccia tutti gli strati della nostra società chiamandoli alla riflessione, alla solidarietà, e ci dice che è possibile far progredire il paese. Agli strati popolari che sopravvivono nelle catacombe della disperazione, dell’oblio e dell’abbandono ufficiale, diciamo che è possibile, confidando nella forza interiore e nella decisione che tutti abbiamo dentro, uscire dalla miseria e dalla povertà”.

Molti analisti hanno sottolineato la lacunosità di questo messaggio da campagna elettorale di Ivan Marquez, che ha dimenticato di domandare perdono alle vittime di un conflitto armato durato cinquant’anni che si può riassumere con queste cifre: 218.000 persone uccise, di cui 177.307 erano civili, 25.000 sequestri di persona, 1.800 violenze sessuali e oltre sette milioni di cittadini che hanno dovuto lasciare le proprie case in conseguenza della guerra civile, i cosiddetti desplazados.

La guerriglia delle FARC per l’ ennesima volta non ha rispettato gli impegni presi di liberare tutti i bambini soldato, tanto da provocare un comunicato “totalmente insoddisfatto” da parte della Defensoria del Pueblo (difensore civico nazionale) a cui si aggiunge una dura presa di posizione anti-governativa di Human Rights Watch, che parla di “impunità per i carnefici” e che accusa: “Se il Governo colombiano avesse davvero l’intenzione seria di rispettare il diritto delle vittime alla giustizia, dovrebbe correggere i gravi difetti degli accordi di pace”.

Il negoziatore del Governo Humberto della Calle dall’Avana spiega: “Questa pace imperfetta ma reale, tutta da costruire, è un’opportunità di trasformazione per tutta la Colombia, non si limita al silenzio delle armi”.

Stupisce poi che questo storico accordo sia avvenuto senza alcuna solennità, in assenza di capi di Stato e dei vertici dell’Onu.

Eppure i cinque cardini su cui si fonda l’accordo di pace sono nodi strategici, irrinunciabili per capire la storia e il futuro di un paese soggiogato da una violenza fratricida che dura da mezzo secolo: la questione agraria con una più equa ridistribuzione della terra, il futuro politico delle FARC, che potranno presentarsi alle elezioni del 2018 già certe di poter comunque contare su un “diritto di tribuna” di almeno 5 seggi per ciascuna delle due Camere (anche se non ottenessero i voti necessari!), la fine del conflitto, il reinserimento sociale degli ex guerriglieri, la lotta al narcotraffico e la riparazione per le vittime.

Quella sera del 24 agosto si respirava comunque tanta euforia e gioia nel Parco della Calle 60 di Bogotá, dove si sono riuniti i politici di sinistra e i difensori dei diritti umani per celebrare la festa della pace. È il volto multietnico e multiculturale di una Colombia che celebra con speranza la firma degli accordi, ma che non nasconde la propria preoccupazione per la traduzione di quegli accordi nella vita quotidiana, in un paese ostaggio delle mafie, campione della diseguaglianza e della iniqua distribuzione delle terre, dove i bambini dell’etnia Wayu continuano a morire di fame, che quotidianamente assassina difensori dei diritti umani, leader indigeni e contadini perché il diritto alla protesta sociale ancora non viene tollerato in questa democrazia imperfetta.

E non si può dimenticare che l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe Vélez ha scatenato una feroce opposizione contro l’accordo, orchestrando in tutte le regioni una campagna per il No. Infatti il prossimo appuntamento decisivo sarà quello del 2 ottobre, quando il popolo sarà chiamato ad esprimere il suo giudizio sull’accordo di pace con un apposito referendum, che secondo molti sondaggi potrebbe concludersi con la vittoria del No; il che sarebbe una decisione sconcertante, che cancellerebbe gli accordi firmati il 24 agosto e significherebbe la vittoria di una cultura della morte che continuerebbe a perpetuarsi in Colombia.

Sull’altro versante, il presidente Juan Manuel Santos, lanciando immediatamente la campagna referendaria per il Sì, ha commentato ottimisticamente: “È la fine della sofferenza, del dolore e della tragedia della guerra. Questa è un’opportunità unica e storica per lasciarsi alle spalle il conflitto e dedicare i nostri sforzi a costruire un Paese più sicuro, equo, istruito, per tutti noi, per figli e nipoti”.

Intanto, in attesa dei risultati del voto, la pace resta appesa a un filo.

Cristiano Morsolin è un esperto di diritti umani in America Latina, dove risiede dal 2001.

Per gentile concessione di “Unimondo”.

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