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I prossimi scenari in Medio Oriente

Cosa cambierà con la presidenza Trump?.

L’elezione di Donald Trump sembra avere rimescolato tutte le carte nel grande teatro del Medio Oriente. Le domande assillanti che attori e osservatori si pongono si riducono in sostanza a tre: l’America di Trump si ripiegherà su se stessa, ritrovando l’antica anima isolazionista dei repubblicani? I rapporti con la Russia di Putin sono a una svolta? L’Europa rimarrà fuori dai grandi giochi?

Aleppo

Occorre premettere che forse troppi dimenticano che la politica estera di uno stato non può mutare di punto in bianco per un cambio di amministrazione. Gli accordi firmati da Obama sul clima impegnano e impegneranno per decenni anche l’America di Trump, che proverà magari a smussarne gli aspetti meno graditi, ma non potrà semplicemente disconoscerli. Anche la politica estera non è cosa che si cambia da un giorno all’altro. Gli accordi, palesi e nascosti, tra gli USA e i paesi amici dell’area (Israele, Turchia e Arabia Saudita in primis), ma anche i trattati internazionali con ex-stati canaglia come l’Iran (ratificato all’ONU), sono pienamente vincolanti per gli USA di cui Trump assumerà la presidenza a gennaio. L’impegno militare dichiarato (si pensi all’intervento dell’aviazione militare americana in Siria e Iraq) e nascosto (appoggio a questo o a quel gruppo di ribelli, azioni di kommandos e truppe speciali), frutto di lunga preparazione e attenta pianificazione militare e finanziaria, a maggior ragione non sarà ritirato o sostanzialmente modificato nel breve periodo (1-2 anni).

In fondo, a ben vedere, anche i rapporti con la Russia di Putin si modificheranno sì, ma solo nel solco di una vistosa azione “correttiva” già iniziata nell’ultima parte della presidenza di Obama. Quest’ultimo, dopo essere arrivato a un passo dall’attacco frontale al regime di Assad, si dovette fermare grazie all’accorta politica di Putin che si fece garante dello smantellamento dell’arsenale sporco del presidente siriano. Il seguito lo conosciamo: la Russia è intervenuta massicciamente a fianco del suo protetto, inducendo gli USA a rivedere la loro ambigua politica siriana e anzi a costringere Turchia e Arabia Saudita a bloccare il loro aiuto sottobanco all’ISIS.

Erdogan

Ma l’America di Obama, fortemente condizionata dalle posizioni anti-russe della Clinton, non ha potuto o voluto iniziare lo smantellamento delle sanzioni contro la Russia (iniziate a seguito della guerra ucraina) e ha frenato il più possibile l’attuazione della parte finanziaria degli accordi con l’Iran. Ecco, qui senza dubbio Trump potrà muoversi con più decisione, almeno per smontare la politica clintoniana del muro contro muro contro Putin. Rimane l’Iran, verso il quale Trump sembrerebbe molto più chiuso dell’amministrazione Obama, ma qui tutto dipenderà dalla trattativa con Putin e da quanto Trump è disposto a sacrificare dei suoi “principi” pur di ingraziarsi il grande zar di Mosca.

Un nuovo protagonismo europeo?

E proprio qui si aprono margini di azione anche per la nostra (dagli USA quasi) dimenticata e imbelle Europa. La quale ha dovuto fare, apparentemente, buon viso alla vittoria inaspettata di Trump quando tutte le cancellerie davano per scontata l’affermazione della Clinton. Dicevo apparentemente, perché per l’Europa l’ elezione di Trump apre all’improvviso una insperata scorciatoia allo smantellamento delle sanzioni contro la Russia e, non a caso, le industrie e i businessmen europei si sono fregati le mani alla notizia della sua vittoria. Le sanzioni, come si sa, hanno costituito una mazzata non indifferente per le esportazioni della UE verso la Russia e hanno coinciso oltretutto con un periodo caratterizzato da bassa crescita e alti livelli di disoccupazione.

L’Italia poi ha pagato anche di più, perché tutto il settore del lusso made in Italy, ma anche il turismo dei neoricchi russi nel Bel Paese, ne ha sofferto duramente, per non parlare del taglio drastico alle nostre esportazioni nella meccanica e, in generale, del blocco o congelamento di grandi accordi e partnership di lunga data o in fieri favoriti dalla tradizionale politica filo-russa (negli affari) dei nostri governi, da Andreotti fino a Berlusconi.

Ma per l’Europa si apre ora anche un’altra occasione storica. Se Trump come lascia credere non si immischierà più di tanto nella politica mediorientale, preferendo lasciare ad altri (Turchia e Israele in primis) il compito di fare i cani da guardia dell’Impero; se, come più volte annunciato, gli USA non si vorranno più sobbarcare spese militari per garantire la sicurezza dei paesi europei, bruscamente invitati a “pensare alle proprie spese” senza più contare sulle finanze americane; se è vero tutto questo, allora per l’Europa pare davvero giunto il momento di dotarsi di una politica forte e unitaria nel Mediterraneo e, conseguenza logica, di apprestare forze armate comuni o almeno sotto un comando unificato.

Putin

Il recente attivismo della commissaria europea alla politica estera, l’ottima Federica Mogherini, che negli ultimi tempi ha presieduto una riunione dopo l’altra su questioni politico-militari, è indice evidente della presa d’atto che in questo campo le cose per l’Europa stanno cambiando davvero e forse anche più rapidamente di quanto i settori politici più filo-atlantici avessero potuto immaginare o augurarsi. La NATO non andrà in soffitta, beninteso, ma Trump ha fatto capire che lo zio Sam penserà d’ora in poi soprattutto ai propri interessi e, se l’Europa vorrà sostenere i suoi nell’area mediorientale, dovrà farlo soprattutto di tasca propria e con le proprie forze militari.

Cosa significhi questo in pratica è presto detto: i paesi europei saranno a breve costretti a elevare il budget delle spese militari, a comprare più aerei, navi da guerra e mezzi da combattimento; dovranno allestire costose e più imponenti forze d’intervento rapido (paracadutisti, marines, ecc.), un cui primo nucleo è già sulla carta attivo, anche se di fatto il suo impiego soffre di troppi condizionamenti nazionali (per fare un esempio: se domani si decidesse un intervento armato europeo in Libia, si può immaginare il putiferio di polemiche e di contrapposti veti dei governi nazionali filo o anti-interventi).

Ma manca ancora, cosa più importante di tutte e che richiede tempo e lucidità progettuale, la chiara definizione di obiettivi comuni nella politica mediorientale della UE. Da questa (ancora evanescente) definizione di obiettivi comuni, di là da venire, potrebbe poi discendere a cascata:

1. l’individuazione delle aree d’interesse europeo in cui attuare o meno politiche comuni (di sostegno economico o di embargo, di intervento militare diretto o solo di rifornimento di armi e equipaggiamenti a governi o gruppi “amici”, di blocco o incoraggiamento dell’emigrazione ecc.); 2. le politiche di alleanza regionale (con la Turchia o l’Iran, piuttosto che con l’Egitto o Israele) e di coordinamento diplomatico, anche nelle sedi istituzionali di più alto livello (ONU, NATO ecc.); 3. la ricerca di un appoggio (o meno) a livello locale con le potenze in grado di muoversi su scala planetaria (Russia e Cina, oltre agli USA).

Come sappiamo, su tutti i punti sopra richiamati oggi l’ Europa si muove in ordine sparso: ci sono paesi filo-russi e paesi filo-atlantici; c’è chi sulla Turchia vorrebbe ancora scommettere e chi vorrebbe isolarla; c’è chi vorrebbe un intervento armato in Libia e chi no, chi appoggerebbe la politica filo-Assad di Putin e chi rimpiange il mancato intervento americano di qualche anno fa. In una parola: l’ Europa come attore internazionale non esiste. E paesi come Germania o Francia (per non parlare della Gran Bretagna) si ostinano a fare la loro autonoma politica estera, infischiandosene dell’Europa e della Mogherini.

Per costruire una politica estera comune e provare a contare di più nel mondo, l’Europa dell’era Trump dovrebbe cominciare col rompere qualche schema consolidato, ormai infecondo e inconcludente. Come l’appiattimento sulle tesi israeliane e il conseguente rifiuto di porre Tel Aviv di fronte alle sue gravi inadempienze rispetto ai trattati e le risoluzioni dell’ONU e al suo manifesto boicottaggio della soluzione dei “due stati” (a dire il vero, di qualsiasi soluzione per la Palestina); come la palese indifferenza di fronte alla questione dei diritti umani calpestati in tutti i paesi arabi e non arabi della riva sud e est del Mediterraneo e, di recente, gravemente compromessi anche in Turchia.

Legare lo sviluppo degli investimenti e degli accordi economici e commerciali con Israele,Turchia o Egitto a effettivi progressi sulla strada del rispetto dei diritti civili e delle minoranze, farebbe forse nell’immediato perdere qualche affare, ma nel medio periodo aiuterebbe l’Europa a ritrovare la forza morale di proporsi come motore del rinnovamento di quelle società.

Le primavere arabe sono, come tutti sanno, amaramente terminate anche perché l’Europa è stata assente: il solo Erdogan cercava di “appropriarsi” del merito di quella rivoluzione in un famoso tour per le capitali arabe in cui lasciava intendere urbi et orbi che la “democrazia turca” era stato il modello.

Ecco, l’Europa dell’era Trump, proprio profittando della probabile spinta isolazionista della politica estera americana, ha una chance per proporsi come modello e motore di un nuovo Medio Oriente. Ma ad una condizione, invero di non facile realizzazione: i vari Merkel, Hollande, Renzi, Juncker e Tusk dovrebbero mettere finalmente in testa all’agenda europea la definizione urgente di una comune politica estera sul teatro cruciale del Mediterraneo e del Medio Oriente.