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Il corridoio

Il modello del corridoio umanitario: migranti vulnerabili, perlopiù donne, bambini e malati, vengono individuati nei campi profughi e dopo una preparazione fatta di corsi di lingua e formazione, vengono accolti in piccole comunità. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Nella primavera del 2016 è atterrato nel nostro paese un primo gruppo di migranti arrivati attraverso un “corridoio umanitario”. Di che si tratta?

È un’iniziativa nata dalla società civile, il che la differenzia da analoghe esperienze che esistono in altri paesi, per esempio in Canada, Germania, o negli Stati Uniti, dove peraltro si rivolgono specificamente ai rifugiati. I corridoi umanitari, così come sono stati ideati in Italia, riguardano invece migranti vulnerabili, indipendentemente dal fatto che siano rifugiati o migranti economici.

All’origine di questo esperimento, la Comunità di Sant’Egidio, la Tavola Valdese e l’Unione delle chiese evangeliche, che hanno unito i loro sforzi, utilizzando parte dei proventi dell’8 per mille, per organizzare i corridoi e provvedere ai meccanismi di integrazione, che si sono rivelati particolarmente efficaci. I migranti sono stati distribuiti in varie realtà territoriali, dalla Puglia al Trentino-Alto Adige, in famiglie e comunità preparate ad accoglierli.

I primi gruppi sono venuti dal Libano, dove hanno beneficiato di corsi di lingua, con una vera e propria preparazione al viaggio. Il Ministero degli Esteri e il Ministero dell’Interno hanno dato veste istituzionale all’iniziativa, in particolare attraverso uno screening degli arrivi e rilasciando i visti. Ma resta un’iniziativa della società civile.

Le modalità dei corridoi si sono rivelate appropriate soprattutto nella prospettiva della successiva integrazione. Sappiamo che i flussi di migranti economici possono provocare fenomeni di intolleranza o di vera e propria xenofobia. Ma conoscendo direttamente i migranti, l’atteggiamento cambia. Delle ricerche hanno dimostrato come si tenda a parlare male dei migranti, ma non di quelli che si conoscono direttamente, con cui si lavora, che ci aiutano in casa. Ecco perché l’iniziativa dei corridoi sta avendo successo: perché, provvedendo a un’integrazione diffusa sul territorio, non concentrata nei grandi centri di accoglienza, spaventa meno, mettendo in relazione i migranti in quanto individui coi cittadini italiani”.

Diceva che i corridoi umanitari si rivolgono a gruppi particolarmente vulnerabili di migranti...

Parliamo di famiglie, donne e bambini in primis, qualche disabile, qualche anziano. Le persone più bisognose vengono individuate in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni e l’UNCHR l’Alto commissariato per i rifugiati. In questa prima fase abbiamo lavorato soprattutto in Libano, dove vi sono enormi campi profughi nati per rispondere all’emergenza umanitaria costituita soprattutto da chi fugge dalla Siria. Ma non ci sono solo siriani in questi corridoi umanitari, vi sono anche iracheni o altri mediorientali. Sono stati quindi individuati i nuclei familiari con donne e bambini particolarmente bisognosi, che avessero l’Italia come destinazione del loro viaggio e accettassero di seguire un percorso di preparazione. Hanno frequentato corsi di italiano, poi sono stati preparati anche sulla loro futura vita da noi. Subito dopo l’arrivo, vengono distribuiti sul territorio e ospitati da famiglie o dalle strutture messe a disposizione dalle realtà territoriali. È un meccanismo che su numeri gestibili funziona molto bene. La Comunità di Sant’Egidio, insieme con Tavola Valdese e Unione delle chiese evangeliche, si è occupata di questi aspetti, anche con operatori in loco, che hanno cooperato con le organizzazioni internazionali. I corridoi di cui parliamo, ovviamente, non sono intesi per grandi numeri, ma per dare una risposta a situazioni umanitarie di particolare gravità”.

I corridoi hanno un costo...

Non è un processo a costo zero, perché bisogna provvedere alla preparazione e poi al viaggio. I gruppi viaggiano con voli charter o di linea, in parte sponsorizzati e in parte pagati coi fondi messi a disposizione dagli enti confessionali che citavo prima. Una volta in Italia, vi sono poi i costi dell’accoglienza nelle comunità locali, che includono istruzione per i piccoli, corsi di formazione professionale, corsi di italiano, ecc.

Va tenuto presente che le migrazioni hanno un impatto duplice. Nel breve periodo costano, perché bisogna provvedere all’accoglienza, alla gestione dei flussi, all’integrazione. Nel medio e lungo periodo però portano vantaggi economici importanti: in Italia, secondo uno studio della fondazione Moressa, 640.000 pensioni l’anno sono pagate da stranieri. Ciò che viene versato da questi contribuenti, fra l’altro molto giovani, contribuisce al mantenimento del sistema previdenziale italiano. E contribuisce anche all’economia in misura rilevante, perché i lavoratori migranti pagano l’Irpef, le tasse, alimentano i consumi; c’è insomma un’economia che beneficia dei flussi migratori. È importante tenerlo presente davanti a una popolazione europea che invecchia. In Europa oggi siamo circa 700 milioni, nel 2050 saremo, più o meno, sempre 700 milioni. Gli africani sono grosso modo un miliardo ma nel 2050, se le stime verranno confermate, saranno due miliardi e mezzo. Immagini che impatto ci attende; dobbiamo prepararci a gestire questo fenomeno in termini di sostenibilità anche sociale, di accettazione culturale. È questa la sfida. E in questo i corridoi umanitari possono servire. Certo, i numeri sono limitati, ma l’esempio di meccanismi virtuosi, di un’accoglienza che funziona può favorire anche l’integrazione di numeri più grandi. Il valore di questo modello sta anche nell’incoraggiare altri soggetti a promuovere progetti analoghi.

In questa prima fase l’iniziativa è stata gestita da associazioni confessionali, ma anche altre realtà come Ong, Fondazioni, soggetti anche bancari, aziende, potrebbero coinvolgersi. Non a caso ho parlato di aziende, perché una prospettiva importante è l’inserimento professionale. Il lavoro è, dopo la lingua, uno degli strumenti più importanti per l’integrazione. Dando prospettive professionali, aiutando le persone ad accrescere le loro competenze, si può anche immaginare una migrazione di ritorno. Abbiamo già delle proposte da parte di aziende che vorrebbero far venire migranti in possesso di certe qualifiche, formarli e poi inserirli in attività professionali nei luoghi d’origine.

Le migrazioni non sono solo una sfida per i paesi di destinazione, ma anche un impoverimento per i paesi d’origine, perché i giovani, i più preparati, quelli che riescono a vedere oltre, se ne vanno. Il giovane africano del villaggio sperduto neanche sa che esiste l’Europa; in genere chi emigra proviene da realtà più sviluppate, spesso rappresenta una sorta di investimento familiare, gli si affidano i risparmi di una vita per farlo arrivare in Europa e spedire indietro rimesse. Insomma, c’è una fuga di cervelli anche dall’Africa”.

Un grave problema è il mancato ricollocamento in altri paesi europei di chi arriva in Italia...

“Quando parliamo di ricollocamento, parliamo di rifugiati che hanno uno status ben definito, anche dal punto di vista giuridico, non sono migranti economici. Purtroppo, in particolare i paesi dell’Est sono riluttanti ad accogliere i rifugiati.

Vi è anche un aspetto tecnico e che però ha delle ricadute importanti. Oggi possono essere ricollocati solo coloro il cui tasso medio di riconoscimento dello status di rifugiato è pari al 75% in Europa. In Italia gli eritrei soddisfano questo requisito. Tuttavia vi sono immigrati di altri paesi che hanno un pieno status di rifugiato, ma il cui tasso di riconoscimento in Europa non arriva al 75%, perché da quei paesi insieme ai rifugiati arrivano anche migranti economici. Ripeto, parliamo di persone che hanno passato uno screening molto severo per poter accedere allo status e che sono a tutti gli effetti dei rifugiati. Ecco, se un sudanese è rifugiato, se un gambiano è perseguitato, perché non deve essere collocato? È evidente che se possiamo ricollocare solamente eritrei e siriani si pone un problema.

Non è possibile che l’Europa si divida fra quelli che sono disponibili ad accogliere e quelli che rifiutano aprioristicamente l’accoglienza”.

Avete dei riscontri rispetto ai migranti arrivati con i corridoi?

È in corso un processo di monitoraggio per identificare le migliori prassi ma anche i problemi che possono insorgere. Le indicazioni che ci arrivano dalle comunità di accoglienza sono positive; ciò non esclude dei casi di minor successo. Dobbiamo valutare la situazione e su quella costruire i prossimi corridoi umanitari. L’accoglienza nelle famiglie sembra funzionare, anche perché le famiglie stesse erano preparate, sapevano ciò cui andavano incontro, non c’è stata un’imposizione.

Ovviamente la famiglia è solo uno dei tasselli, poi ci sono i corsi di lingua, la preparazione professionale, ecc.

Uno dei problemi maggiori di cui abbiamo purtroppo prova oggi con i richiedenti asilo, è che non riescono a dare un loro contributo. Attendere la concessione dello status di rifugiato o di altre forme di protezione internazionale senza poter lavorare, senza poter dare appunto un apporto concreto, destabilizza sia loro (che si sentono in qualche modo mantenuti e quindi perdono stimoli, spirito di iniziativa), ma anche la società di accoglienza. Per integrarli nel mercato del lavoro vi sono molteplici aspetti da valutare. Stiamo riflettendo, assieme alle altre istituzioni, su un coinvolgimento delle associazioni sindacali e datoriali per studiare un possibile modello di integrazione professionale. Non dobbiamo creare evidentemente categorie contrattuali minori, né prefigurare un abbassamento dei livelli di protezione garantiti ai lavoratori europei. Non possiamo fare due categorie diverse di lavoratori, però si potrebbero individuare delle forme contrattuali innovative, magari temporanee, per far sì che in attesa della decisione definitiva queste persone preservino la loro dignità.

Senza ovviamente abbassare le difese, né introdurre meccanismi di indebolimento delle protezioni sociali. Si tratta di competenze del Ministero dell’Interno, del Lavoro e di altre amministrazioni, ma noi seguiamo queste riflessioni con interesse. Uno dei nodi che andranno sciolti è appunto come passare da una fase di passivizzazione a una fase in cui queste persone possano dare un contributo attivo al benessere della società”.

Luigi Maria Vignali (Intervista a cura di Barbara Bertoncin)

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Luigi Maria Vignali è direttore centrale per le politiche migratorie del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale.