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L’assedio alla Russia di Putin

... e la latitante politica estera europea

Da tempo i media europei e americani battono e ribattono sulla figura di Putin, lo “zar russo”, per accreditare l’immagine di un despota, di un pericoloso nemico dell’Occidente che corre in aiuto dei dittatori mediorientali, in fondo un vero erede di quella inquietante nomenklatura sovietica di non lontana memoria. Ben inteso,

Putin non è mai stato un campione della democrazia e tantomeno della trasparenza, quella glasnost che fu uno degli slogan della perestroika inaugurata da Gorbaciov, che condusse poi allo smantellamento dell’URSS. Ma è anche vero che Putin non è certamente più despota del suo omologo cinese o dei sovrani d’Arabia e degli stati arabi del Golfo, con cui gli Stati Uniti e l’Europa intrattengono amichevoli rapporti diplomatici e soprattutto commerciali, in barba ai diritti umani che in quei paesi sono spesso solo un flatus vocis e nulla più.

Ma allora, ci si chiederà, perché tanto accanimento dei media e degli stati dell’alleanza euro-americana nei confronti della Russia di Putin? Se guardiamo indietro, dopo la parentesi del presidente Eltsin – il filoamericano defenestratore di Gorbaciov e gestore della lunga crisi economica successiva alla fine del comunismo, morto nel 2007 - vediamo che con Putin e Medvedev la politica russa subisce una svolta radicale: si cominciò a deprecare la decadenza della Russia, le cui forze armate all’epoca letteralmente arrugginivano negli arsenali; ritornò in auge un certo virulento nazionalismo che guardava preoccupato alla fuga dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia nelle braccia dell’Occidente. L’Occidente - diceva la nuova dirigenza dell’era Putin - s’era approfittato della debolezza russa, e ad uno ad uno si portava via i pezzi dell’ex-impero sovietico, con la Polonia, l’Ungheria, la Cekia che entravano nella Comunità Europea, i paesi baltici che ospitavano persino contingenti militari Nato, le repubbliche caucasiche in bilico tra Est e Ovest.

La nuova Russia di Putin reagiva rilanciando l’ammodernamento delle sue forze armate e riprendendo a fare una muscolare politica estera. In due direzioni essenzialmente: rafforzando l’alleanza con la Cina e i paesi dell’ex-Asia Centrale sovietica, ricchi di gas e petrolio, all’interno di una unione economica centro-asiatica; e poi riprendendo l’iniziativa in Medio Oriente, dove la Russia mancava da troppo tempo e dove però si fanno i grandi giochi dei Grandi del pianeta.

L’occasione è fornita dagli stessi Stati Uniti che, con la politica delle sanzioni all’Iran, costringono il paese degli ayatollah a cercarsi al più presto un grande alleato che lo protegga dalla minaccia americana (e di Israele).

Gli ayatollah non badano certo all’ideologia di Putin – un figlio della “atea” burocrazia comunista della Russia sovietica – e in sostanza ne accettano la protezione e la supervisione sul programma nucleare, presupposto del successivo accordo del 2015 per la fine delle sanzioni. Nello stesso anno Putin, già imbaldanzito dalla vittoria sull’Ucraina nel 2014, interviene massicciamente nella guerra in Siria a fianco del pericolante Assad, che già fruiva di aiuti militari dall’Iran nella guerra all’ISIS, e, come sappiamo, prima blocca un imminente intervento militare americano-israeliano e poi riesce con le sue armi e i suoi aerei a salvare dalla rovina il regime siriano.

A quel punto, la Russia ha non solo ristabilito la sua presenza in Medio Oriente, ma ha persino cementato sul campo una solida alleanza con Iran e Siria. Per gli USA di Obama la misura è colma: l’America, che si era risvegliata malamente dal sogno infranto di una Russia definitivamente fuori dai grandi giochi dopo la gestione Eltsin, coglie al balzo l’occasione della crisi ucraina e dell’annessione della Crimea per iniziare una durissima azione di contenimento del protagonismo di Putin, basata su sanzioni economiche crescenti in cui coinvolge i paesi europei.

Le vere vittime delle sanzioni

E qui, purtroppo, a farne le spese è stata proprio la UE, perché le sanzioni anti-russe imposte da Obama non hanno certo danneggiato gli esportatori americani, bensì soprattutto se non esclusivamente quelli europei. Con una fava gli USA hanno preso in realtà due piccioni: hanno minato l’economia russa, che stava giusto riprendendosi dalla lunga depressione dell’epoca di Eltsin, e hanno bloccato il vistoso riavvicinamento politico e commerciale tra l’Unione Europea trainata dalla Merkel e la Russia, che lasciava intravvedere quello che era stato a lungo il disegno di De Gaulle: un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali, in grado di trattare alla pari con gli altri grandi del pianeta.

Il crescente successo della politica estera di Putin in Medio Oriente (con la recente acquisizione anche della Turchia di Erdogan, delusa dagli USA in occasione del fallito colpo di stato del 2016) e la vittoria definitiva di Assad in Siria con il crollo delle ultime roccaforti dell’ISIS a Raqqa a inizio 2018, hanno spinto gli americani ad accelerare ulteriormente questa politica di contenimento di Putin, fino ad arrivare alla recentissima politica di espulsione dei diplomatici russi, a seguito della morte della ex-spia russa avvelenata a Londra.

Al di là della bontà delle accuse (non ancora provate) di coinvolgimento diretto della Russia nell’assassinio dell’ex-spia, questo episodio ha per noi un risvolto interessante perché ha messo in mostra molto bene i meccanismi del soft power imperiale che gli USA esercitano nell’Occidente:

1. La stampa e i media europei si sono prontamente allineati alla versione del governo inglese della premier Theresa May che accusa direttamente Putin di essere il mandante dell’assassinio, subito data per buona dagli americani (sappiamo quanto affidabili siano in materia gli inglesi, dopo la bufala delle “armi di distruzione di massa” propalata dal premier Blair all’epoca della guerra contro l’Iraq di Saddam, a beneficio di quel credulone di Bush).

2. Poco dopo l’espulsione dei diplomatici russi da Londra all’unisono con gli USA, gli altri paesi europei espellono centinaia di diplomatici russi. Si noti bene che né gli USA né l’Inghilterra della Brexit pagheranno il conto di quest’ulteriore giro di vite nei rapporti con Mosca, bensì ancora una volta i paesi europei della UE, che avrebbero invece tutto l’interesse ad appianare i problemi con la Russia, da cui ricevono gas e metalli pregiati e verso il cui mercato esportano (sarebbe meglio dire ormai: esportavano) una enorme quantità di prodotti.

Ancora una volta emerge il ruolo del tutto subordinato per non dire succube della politica estera europea nei confronti degli interessi americani e del loro scodinzolante bulldog inglese; una politica succube sino al masochismo, che penalizza sempre di più i rapporti commerciali con quello che dovrebbe essere un naturale grande mercato di sbocco del commercio estero europeo, che – se si tiene conto anche della arretrata Siberia - potrebbe garantire all’Europa in perdurante crisi economica ricchi flussi di esportazioni ancora per mezzo secolo. Colpisce che neppure la Francia, il paese del gollismo, abbia avuto un sussulto di orgoglio e autonomia, anzi oggi Macron pare che gareggi ormai con la May nell’ambito ruolo di servo sciocco (ma fedele) dell’Imperatore.

Un Berlusconi da rivalutare?

Mi sia concesso spezzare una lancia a favore del vecchio buontempone nazionale, Silvio Berlusconi, l’uomo dei burlesque e di tante altre pagliacciate che non hanno certo giovato al buon nome dell’Italia nel mondo. Uomo del bunga bunga ma anche, a onor del vero, e occorre riconoscerlo, un buon intenditore di politica estera che, pur mantenendosi ancorato alla UE e alla NATO, mai si era discostato dalla tradizionale attenzione dell’Italia per la Russia (una costante dai tempi di Togliattigrad fino a quelli dei governi Andreotti e oltre) e per la vicina Libia, i nostri primi fornitori di prodotti energetici.

Certamente il Berlusconi che volava dall’amico Putin per stringere accordi miliardari a favore di ENI e ENEL con la Gazprom russa, aveva infastidito più di un paese al di qua e al di là dell’Atlantico (Germania e USA in testa); i buoni rapporti ostentati con Gheddafi avevano certamente ingelosito quell’altro grande amico del dittatore libico, e rivale degli interessi italiani nell’area, il signor Sarkozy, che giusto in questi giorni deve rispondere ai tribunali francesi dei suoi ambigui rapporti con la Libia. La decisione improvvisa della Deutsche Bank nell’estate del 2011 di svendere i titoli italiani (con lo spread che schizzava a quota 500) determinava la caduta di Berlusconi e la sua sostituzione con l’algido Monti – filoatlantico e filotedesco inossidabile, in quei giorni benedetto dal PD e da Napolitano - pronto ad allinearsi alla politica americana sul fronte russo.

La liquidazione della Libia di Gheddafi ad opera di Sarkozy (che forse, si è detto, voleva chiudere la bocca a un amico troppo imbarazzante) ha fatto il resto.

Si osservino le date: la politica estera italiana in meno di un mese (dalla fine di Gheddafi il 20 ottobre del 2011 alla fine di Berlusconi il 16 novembre) ha perso la sponda est e la sponda sud, dove per decenni aveva avuto modo di esercitare una fruttuosa libertà di iniziativa operando con una certa autonomia.

Da Monti a Letta, da Renzi fino a Gentiloni, la politica estera italiana degli ultimi sette anni non è consistita che in un avvilente allineamento senza sbavature ai diktat americani e alle direttive della UE a trazione tedesca. Ora tocca ai Salvini e ai Di Maio che, a parole, hanno promesso maggiore indipendenza dai poteri forti del pianeta… sarà vero? E soprattutto, alla prova dei fatti, ci riusciranno?