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QT n. 4, 20 febbraio 1999 Servizi

Aggiustate quel pasticcio

Il pastrocchio trentino sulla legge per l’elezione diretta del sindaco è in vigore da ormai cinque anni. I danni che ha fatto, e quelli che farà. Se non si rimedia.

Arco ed Andalo andranno a votare il prossimo 14 marzo. Tra l’inizio di maggio e la metà di giugno sarà invece la volta di Bersone, Carzano, Riva, Taio, Tione, Trento e Vigo di Fassa. Complessivamente, in questa primavera già infuocata di appuntamenti, tra rinnovo del Parlamento europeo e referendum, saranno circa 130.000 i trentini coinvolti in elezioni amministrative anticipate per l’elezione diretta del sindaco e dei Consigli comunali.

In alcuni casi, si tratta di un normale ricorso alle urne a seguito dell’entrata in crisi delle giunte comunali. Trento, Riva e Tione vanno invece a votare per diretta conseguenza delle elezioni regionali dello scorso 22 novembre, quando i loro sindaci sono stati eletti in Consiglio regionale ed hanno quindi dovuto abbandonare la carica in comune.

A leggere i quotidiani, le preoccupazioni di quasi tutti i partiti riguardo a queste consultazioni amministrative, paiono esclusivamente legate alla definizione delle alleanze, alla scelta dei candidati a sindaco, alle liste da presentare per l’elezione dei Consigli comunali, all’individuazione degli eventuali capilista, finanche alla spartizione - già iniziata con larghissimo anticipo - degli assessorati delle future giunte (magari con un occhio rivolto agli assetti della Giunta provinciale).

Nessuno, invece, pare preoccuparsi del fatto che i più grossi tra questi comuni rischieranno di ritrovarsi, dopo le elezioni, nel caos dell’ingovernabilità, dovendo magari tornare a votare una seconda volta già il prossimo autunno.

Il motivo sta nel fatto che la legge elettorale dei comuni, approvata dal Consiglio regionale nel 1994, non garantisce ai sindaci eletti una maggioranza in consiglio comunale. Si prevede infatti, per i comuni con più di 3.000 abitanti, di far scattare il cosiddetto premio di maggioranza solo se le liste collegate al sindaco raccolgono almeno il 40 per cento di voti. E si tratta di un’ipotesi abbastanza fortuita, se consideriamo che in Trentino ci sono partiti come la Lega Nord ed il Patt che non hanno ancora trovato la propria collocazione in un quadro bipolare, mentre forze come Rifondazione comunista rimangono in disparte. Insomma, non è affatto da escludere che, in alcuni comuni, né il Polo né l’Ulivo riescano a raggiungere almeno il 40 per cento dei voti.

E a ben guardare, la garanzia di avere una maggioranza consiliare la si ottiene solo se sia il Polo sia l’Ulivo superano il 40%. Il meccanismo del doppio turno, infatti, potrebbe portare al ballottaggio un candidato sindaco appoggiato da una coalizione numericamente forte, che supera il 40 per cento, ed uno appoggiato da una coalizione più piccola. Ad esempio, un candidato dell’Ulivo ed uno appoggiato da una alleanza del Patt con il centro o con la Lega. Dopodiché, al ballottaggio, gli elettori del Polo troverebbero naturale, ovviamente, buttarsi sul candidato a loro meno sgradito, ossia su quello che si oppone all’Ulivo. Risultato: diverrebbe sindaco il candidato del Patt, ma per le sue liste non scatterebbe il premio di maggioranza.

Ma cosa può fare un sindaco quando si trova di fronte un Consiglio comunale con una maggioranza a lui contraria?

Poco. Davvero poco. Fare il sindaco con un Consiglio in mano alla parte avversa è impossibile: ciascuna parte, infatti, sente come un dovere, come un preciso mandato affidatole dagli elettori, quello di opporsi all’altra parte. Da un lato il sindaco, forte dell’elezione diretta, si sente in dovere di sottoporre al Consiglio comunale le proposte programmatiche sulle quali è stato eletto. Dall’altro lato, la maggioranza dell’assemblea, che pure è stata eletta dagli stessi cittadini, sentirebbe come un preciso mandato dei loro elettori il dovere di bocciare ogni proposta del sindaco.

Cosa fare?

Si potrebbe tentare di costruire una maggioranza in Consiglio dopo le elezioni, ma così facendo si vanificherebbe lo spirito della legge sull’elezione diretta del sindaco. Quell’innovazione doveva servire, infatti, a dare ai cittadini il potere di scegliere direttamente chi governa, evitando - appunto - che questa scelta avvenisse attraverso le trattative post-elettorali che prescindono dall’esito delle elezioni. Insomma, il sindaco dovrebbe fare un’alleanza di governo con chi le elezioni le ha perse. E probabilmente, per riuscire in questo intento, si troverebbe costretto a tentare di spaccare le coalizioni che si erano presentate unite di fronte agli elettori. Come dire: una via d’uscita c’è sempre, a patto che si sia disposti a tornare ai vecchi metodi della politica, con buona pace del maggioritario, del bipolarismo e dell’elezione diretta del sindaco.

In alternativa, al sindaco, impossibilitato a realizzare il programma promesso agli elettori e sul quale è stato votato, non resta che dimettersi. E se il sindaco si dimette, si scioglie anche il Consiglio comunale e si torna a votare.

Un quadro troppo catastrofico? I soliti pessimisti di QT?

Eppure, questo è esattamente quanto avvenne nel 1995 (non vent’anni fa!) nei comuni di Levico, Rovereto, Cles e Lavis. Forse della vicenda capitata a Loredana Fontana, sindaco di Levico, pochi si ricordano. Ma tutti dovrebbero ricordarsi il caos nel quale è rimasta Rovereto nel periodo del sindaco Chiocchetti. E dovremmo anche ricordare i motivi per i quali pure l’attuale sindaco Ballardini si muove con difficoltà.

Nel 1994, quando la nuova legge elettorale fu approvata dal Consiglio regionale, questo giornale fu il solo mezzo d’informazione a denunciare che si trattava di un pasticciaccio alla trentina: tutti gli altri si sprecavano in omaggi a Grandi e Giovanazzi, padri della legge. Dopo le comunali del ‘95, non appena si riscontrò che la legge non aveva funzionato, tutti a gridare "vergogna!". Oggi, che la legge è ancora la stessa, identica, e che a votare ci sta andando il capoluogo, tutti tacciono nuovamente, preferendo sfogliare la margherita "Pacher sì, Pacher no".

Ma il mestiere dei quotidiani - dicono - è quello di vendere più giornali. Vediamo allora cosa fanno quelli che per mestiere dovrebbero occuparsi di questi problemi. Cosa accade nelle trattative per la formazione delle maggioranze in Provincia e in Regione? Cosa fanno Dellai e soci?

Un accenno alla riforma della legge elettorale dei comuni, nel programma regionale, parrebbe esserci. Ma non sembra che se ne dia la dovuta importanza. Per Arco, dove le elezioni sono imminenti, è ormai troppo tardi. Ma per Trento, Tione e Riva, se ci fosse la volontà, si farebbe ancora in tempo a rimediare prima della tornata di primavera. (Per inciso, Alberto Pacher è tra quelli che, nella discussione sulle trattative per la Provincia e la Regione, sostengono che le riforme hanno stufato la gente. Vero. Ma sarebbe come se Ciampi, prima dell’ingresso in Europa, ci avesse detto che il risanamento del debito pubblico ha stufato gli italiani. Insomma, se non volessimo un così gran bene a Trento e a Pacher, gli augureremmo di ritrovarsi a fare il sindaco con un Consiglio comunale in mano al Polo e alla Lega).

Rimettere mano alla legge elettorale dei comuni potrebbe poi essere l’occasione per dare una raddrizzata ad altri pasticci. Primo fra tutti, il fatto che il sindaco è attualmente costretto a scegliersi una parte degli assessori tra i consiglieri comunali, rendendo così materialmente impossibile formare una giunta sulla base del criterio della competenza. In questa situazione, il sindaco, nel formare la giunta, è costretto a fare una trattativa alla vecchia maniera con i partiti della coalizione che lo hanno sostenuto: dovendo accontentare tutti, per tenere buona la maggioranza, finisce inevitabilmente per sacrificare la qualità della giunta.

Infine, una revisione della legge potrebbe avvenire anche alla luce di quanto è nel frattempo maturato, tra le forze politiche e tra i cittadini, in questi cinque anni.

Un esempio? Ma perché i DS, Solidarietà e la Rete, anziché tediarci quasi quotidianamente sui giornali con reciproche accuse riguardo al fatto che sarebbe Solidarietà a voler presentare una propria lista autonomamente, o sarebbero al contrario i DS a non volere i cespugli con loro, perché questi partiti - dicevamo - non la fanno finita e ci dicono se sono d’accordo o meno ad introdurre una soglia del 5 per cento per l’ingresso in Consiglio comunale?

Anche perché, se non si pone in fretta un rimedio, alle prossime comunali il problema della frammentazione rischierà di andare ben oltre le beghe tra DS e Solidarietà. E avere un Consiglio diviso in venti partiti significherà cancellare del tutto anche quel poco di credibilità rimasta a questo organo, col rischio che il sindaco diventi a quel punto l’unico potere forte del comune, senza alcun contrappeso, scivolando verso un sistema di stampo peronista.

Per concludere. Comunque la pensi Pacher, l’agenda politica ci riporta insomma, ogni volta, allo stesso punto: le riforme del sistema politico.

E questa volta, a differenza della scorsa legislatura regionale, sui banchi di piazza Dante quelli che dovrebbero essere interessati a far avanzare il maggioritario, ossia l’Ulivo e il Polo, sono ampiamente rappresentati.

Ad essi spetta dunque la responsabilità di fare le riforme, senza più alibi.