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QT n. 8, 17 aprile 1999 Servizi

Ricchi e assistiti, ma spaesati

Com’è cambiatoil Trentino da vent’anni in qua? E come indirizzare le politiche sociali per il futuro? I risultati di un’inchiesta fra gli amministratori dei nostri Comuni.

Non si è trattato di un normale sondaggio di opinione: gli intervistati non sono moltissimi, ma un po’ speciali, 146 fra sindaci e assessori agli affari sociali di 80 comuni della nostra provincia, a cominciare da quelli di Trento e Rovereto, cui comprensibilmente è stata dedicata maggiore attenzione.

Quanto al tema dell’inchiesta (condotta dallo Studio Res di Trento e presentata in un incontro pubblico organizzato dall’associazione "Lorenza Delmarco"), potrebbe sembrare a prima vista un po’ astratto, ma come vedremo arriva invece a toccare la quotidianità più minuta di noi tutti: perché quando ad esempio si dice che nei nostri paesi sta venendo meno il senso della comunità, questo significa che se hai bisogno di qualcuno che ti badi al bambino per un paio d’ore, non puoi più rivolgerti al vicino di pianerottolo. E se di notte senti dei rumori insoliti provenire dall’appartamento di sopra, la cosa non ti riguarda più.

Venendo al dunque, le domande sottoposte a questi pubblici amministratori si proponevano di far emergere la percezione che essi hanno della realtà in cui operano, e poi il tipo di risposte che intendono dare, i progetti che hanno in mente per porre rimedio, per quanto sta in loro, ai guasti constatati.

Cosa ne viene fuori? Rispetto a vent’anni fa si vive meglio da molti punti di vista (benessere materiale, attenzione ai temi sociali, diffusione dei servizi, crescita culturale), ma per altri versi la situazione appare peggiorata: degrado del territorio (indicato da un intervistato su tre), immobilismo socio-economico (27.9%), e soprattutto uno scarso attaccamento alla comunità, lamentato dal 40.1% degli intervistati.

Particolarmente nelle zone turistiche si avverte una crescente invivibilità (ambiente degradato, traffico...), mentre la tendenza alla monocultura - turistica appunto - in prospettiva presenta dei rischi. Più in generale, l’economia appare poco creativa, troppo assistita, troppo basata sui finanziamenti pubblici, il che frena la ricerca di nuove possibilità; tanto più perché questa illusoria fiducia in uno sviluppo illimitato favorisce bassi livelli di scolarità. E intanto si accentua una crisi di identità e una perdita del senso comunitario: i modelli tradizionali, infatti, funzionano sempre meno e non si riesce a costruirne di nuovi. D’altronde, identità più vaste (europea, per cominciare) non rappresentano ancora un valore diffuso fra i cittadini, e nemmeno fra i pubblici amministratori intervistati.

Come conseguenza di questa crisi di identità, si nota un crollo della partecipazione socio-politica: come mostra il grafico, è questa l’unica voce che nemmeno uno degli intervistati abbia dato in crescita rispetto a vent’anni fa. La gente, in sostanza, venendo a mancare quel legame, si fa gli affari suoi.

Igovernanti dei nostri comuni - notano i ricercatori - appaiono lucidi nell’analizzare la situazione, ma quando poi si tratta di prendere delle misure per rimediare ai guasti, il discorso cambia. Buona parte del disagio che si avverte all’interno della popolazione ha un’origine di tipo culturale, eppure gli investimenti per la crescita culturale sono quelli di tipo tradizionale e percentualmente scarsi. E ancora: quando si chiede a sindaci ed assessori quali sono, a loro avviso, le priorità di tipo sociale, vengono indicate anzitutto quelle più ovvie, a cominciare dagli anziani, mentre solo in fondo alla classifica troviamo fenomeni come le nuove povertà, l’emarginazione, il disagio sociale, che sono le vere emergenze di cui gli stessi amministratori, in precedenza, erano apparsi consapevoli.

E tradizionale finisce per essere anche il tipo di intervento previsto. Lo Stato sociale, per questi amministratori, significa infatti prima di tutto assistenza (44%), poi prevenzione (31%) e solo in terza battuta promozione (26%).

Il sindaco di Trento Alberto Pacher, intervenendo al convegno, ha approfondito questo punto: soddisfare le necessità degli anziani è ovviamente doveroso, e in un certo senso anche facile. Le richieste che verranno avanzate sono prevedibili, la categoria ha comunque dei canali di comunicazione e l’entità della risposta può essere programmata semplicemente in base ai dati demografici. Si tende invece a trascurare un tipo di disagio che esiste ma non parla, non chiede nulla. Ce ne rendiamo conto all’improvviso, quando finisce in cronaca nera: il disagio giovanile, ad esempio, spesso non arriva ai servizi sociali, ma emerge, di colpo, come problema di ordine pubblico. O la fragilità di tante famiglie monoparentali, moltiplicatesi con la crisi del rapporto di coppia: "Avvertiamo questo problema - dice Pacher - per via indiretta, quando constatiamo che il 30% delle richieste di case Itea è fatta da famiglie senza un padre".

E lo stesso fenomeno migratorio - aggiungiamo noi - che pure è ben visibile, non viene affrontato come dovrebbe anche perché i soggetti interessati non hanno forza contrattuale, e spesso, pur avendo dei bisogni, non domandano.

Nel corso del convegno è stato rievocata l’istituzione del "minimo vitale": fino ad allora le famiglie povere, per avere un sussidio, dovevano rivolgersi agli enti comunali di assistenza per chiedere in sostanza un’elemosina. Col "minimo vitale" si è affermato invece un diritto valido per chiunque si trovi al di sotto di un certo reddito. Si tratta ora di fare un altro pezzo di strada in direzione di un nuovo tipo di Welfare, passando dalla distribuzione di denaro all’istituzione e al potenziamento di servizi. Con problemi non piccoli da risolvere: perché sappiamo tutti a cosa hanno diritto i cittadini italiani in tema di istruzione e di sanità, ma sul piano delle politiche sociali, c’è ancora molto da inventare.

In attesa di precisare un nuovo modello di Welfare e in attesa che dal Parlamento esca quella legge-quadro alla quale da più di un anno si sta lavorando, si potrebbe però cominciare almeno a razionalizzare l’esistente: intanto, rendendo la situazione più omogenea, perché attualmente - è stato detto durante il dibattito - "in certe zone d’Italia si ha diritto a certe cose, altrove no". E poi occorre rendere più agili, funzionali e tempestivi i servizi che ci sono. Un esempio: se esci dall’ospedale e hai bisogno dell’assistenza domiciliare, ne hai bisogno immediatamente, non puoi aspettare i tempi burocratici.

A Padova, da alcuni anni, hanno inventato l’uovo di Colombo: nei casi urgenti, i servizi vengono attivati immediatamente; a riempire i moduli ci si pensa dopo.

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