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QT n. 15, 11 settembre 1999 Servizi

In vacanza col giornale

Un’iniziativa di animazione culturale in un paesino della val di Non.

Il Messaggero di Roma il 20 agosto titola: "Trucco dei disperati, sbarcano mille Rom." La Nazione di Firenze, lo stesso giorno, presenta invece il fatto così: "Invasione di zingari: settemila in due mesi."

E’ di una qualche utilità culturale mettere a confronto, in talune occasioni, i titoli di due giornali diversi? Analizzare le parole rom e zingari, sbarco e invasione, mille e settemila, discuterne, interrogarsi sulle scelte operate dai direttori dei due quotidiani, Pietro Calabrese e Vittorio Feltri?

E perché il 21 agosto, a proposito della canonizzazione di De Gasperi, l’Adige di Paolo Ghezzi titola in prima pagina: "Beato forse mai", mentre l’Alto Adige di Fabio Barbieri dà la parola a padre Tito Sartori il quale dichiara che non esiste "nessun ostacolo alla beatificazione"?

L’apertura de La Stampa, il 18 agosto, è "Un minuto di apocalisse in Turchia", mentre quella, cubitale, de la Padania richiama lo stratagemma elettronico anti-fuga pensato per i delinquenti: "Un braccialetto? Al Palazzo".

Se il tuo giornale è quello diretto da Marcello Sorgi, proprietà della Fiat, entri a far parte di una certa comunità di lettori, e scrittori, assumi un certo punto di vista e, a poco a poco, vai a dormire, la sera, con quella determinata visione del mondo. Entri in una storia, addirittura, che dura da 133 anni, perché quel giornale è nato a Torino nel 1867, quasi insieme con l’unità nazionale. Il quotidiano della Lega Nord, tre anni di vita, direttore politico Umberto Bossi, ti manda a dormire impregnato, diciamo così, di una Weltanschauung alquanto diversa.

Nei paesi turistici del Trentino arrivano d’estate i quotidiani più strani di questa Italia lunghissima. E si vendono anche. Certo, noi italiani, per tante ragioni, non siamo grandi lettori, né di libri, né di giornali. Ed è questo basso indice della lettura che ci fa una nazione fragile culturalmente. Eppure, in vacanza, mi pare di vedere i giornali un po’ più numerosi passare di mano in mano, benché confezionati più in fretta, e infarciti di tante sciocchezze.

Ne vedo pacchi voluminosi all’edicola anche a Don, il paesino spuntato nel verde in Alta Val di Non, ai piedi del monte Roen, dove passo da vent’anni le ferie. Seppure a rischio crescente: ho già promesso che me ne andrò al primo pilone di cemento piantato al posto di un albero, sradicato per far posto allo "sviluppo" che ha il nome di altri impianti sciistici. Ma il dibattito rimane acceso, e la speranza che il monte si possa salvare non è spenta del tutto. Come però?

Non è vero che le manifestazioni turistiche si riducono in Trentino alle salsicce arrosto e all’esibizione di cosce da parte di miss più o meno formose. Di castelli, in Val di Non, se ne possono visitare pochini. Ma si organizzano gare sportive, per molti gusti. Per chi vuole ci sono mostre d’arte, lezioni naturalistiche e rievocazioni storiche, concerti, escursioni nei boschi e sui monti, film, talvolta rappresentazioni teatrali. Sono iniziative significative anche se in difficoltà. La risposta del pubblico non è sempre confortante. Qualcuno che ha passato una vita ad organizzare si è tirato in disparte, o è stato emarginato, per cui il loro livello è talvolta scaduto.

Che a Don il tradizionale Falò, spettacolo sotto le stelle, per rievocare il lavoro della fienagione sul monte, sia stato sostituito dal rock e dalle cubiste sotto un tendone, è una perdita per tutti, paesani e villeggianti, per i giovani soprattutto. E’ in corso uno scontro all’interno dei gruppi dirigenti dei vari paesi: fra chi punta a un profitto economico immediato, anche se mette a rischio l’ambiente, e chi ha fiducia in un turismo culturale, di qualità.

Quest’anno propongo anch’io, all’APT della Val di Non, il mio granello di sabbia: la lettura guidata dei giornali, per una settimana.

Adotto la strategia imparata in anni lontani da Luigi Pedrazzi, e che ho sperimentato in classe con i miei studenti: all’inizio la descrizione e l’analisi della prima pagina di due quotidiani; poi la lettura di due articoli a confronto sullo stesso tema, e di due articoli tipici, quelli che, su argomenti diversi, caratterizzano quel giorno i giornali scelti; infine le domande e gli interventi del pubblico.

Comincio dai colossi, il Corriere della sera e la Repubblica, martedì 17 agosto. Sono presto evidenti ai presenti le somiglianze e le diversità. L’apertura è comune: "Bracciale antifuga, coro di sì" per il primo, "Patto anti-criminali" per il secondo. Ma sul tema del trasporto aereo l’informazione è diversa. "Esami d’agosto, Malpensa bocciata", a fronte di un "Voli, ritardi record in Usa ed Europa". Fredda la cronaca del Corriere sulla protesta aerea di Berlusconi contro la proposta di legge governativa sugli spot elettorali, ironico e sprezzante il commento di Curzio Maltese su la Repubblica.

I giornali cioè, vediamo e ascoltiamo, informano e orientano. Neutralità e oggettività si rivelano un mito: il lettore viene "formato" e influenzato mentre lo si informa, già attraverso l’impaginazione decisa da Ferruccio De Bortoli ed Ezio Mauro, prima ancora che dalle parole scritte e incolonnate negli editoriali pensosi.

Gli ascoltatori, attenti, nella Sala Convegni dell’Albergo di Don, non paiono sorpresi da queste scoperte, tranne qualche ragazzo: sanno che i giornali sono imprese editoriali che vendono e producono merci speciali. Come per le ciliegie e i computer, anche chi tratta notizie si imbatte in entrate e uscite, costi e ricavi, profitti e perdite. In Italia siamo informati, e aiutati a pensare, così: da chi commercia auto e petroli, da chiese e partiti, da Monti e Berlusconi. Il lettore turbato talvolta è tentato di mollare la presa: occorre invece imparare a districarsi in questo groviglio, e pretendere che la scuola insegni ai giovani a leggervi e a scrivervi dentro, a voltare le pagine, e a fermarsi su una. Scopro anch’io, in questa occasione, che il Corriere è nato nel 1876 e la Repubblica esattamente cento anni dopo.

L’Unità, fondata da Antonio Gramsci nel 1923, da storico giornale di opposizione, persino clandestino durante il fascismo, è oggi chiamata a sostenere il governo, non sai se per una sorta di condanna, o di premio, o per uno di quei paradossi di cui la storia va fiera. Si contorce il quotidiano diretto oggi da Paolo Gambescia pur di ispirare fiducia, e annuncia in apertura: "Sud, parte la sfida dell’occupazione." Il suo dirimpettaio del 19 agosto è il berlusconiano Giornale, che vive per conservare e solleticare quanto di più turbolento si agita nella pancia della società. Mario Cervi può fare allegramente l’oppositore politico, con titoli come "La spina nel fianco", "Arrestato e liberato: pugnala un poliziotto", "Se la TV viene spenta per legge", "I diessini hanno bisogno di clemenza più di Craxi", e via enumerando.

A confronto con Il Messaggero chiamo La Nazione di Firenze, il Resto del Carlino di Bologna, e Il Giorno di Milano. Li appendo al muro, ed è grande la sorpresa di tutti nel trovarsi davanti tre prime pagine uguali, perché uguale è la proprietà, e unico il direttore, Vittorio Feltri. Questa è la concentrazione delle testate, spiego. E rimango sconvolto dal fondo di Sergio Ricossa, che può imperversare in tre città, e gridare "l’allarme per svegliare la cultura europea, italiana in particolare, affinché veda il pericolo dell’islamismo." Ricossa e Ida Magli, che incomincia oggi a collaborare con tali giornali e a propagandarvi tesi xenofobe, sono docenti universitari, ed educano i giovani a scuola.

Scelgo come articolo tipico de la Padania una lettera incorniciata per bene, rafforzata da una vignetta. Matteo Salvini è in vacanza e si imbatte, lo sventurato, dappertutto in italiani, anche se può concludere giulivo così: "per fortuna che si è incontrato anche qualche padano: l’amico di Treviso che, sulla moto, aveva il nostro Sole. L’amico di Torino con la sciarpa della Lega sullo zaino. L’ignoto fratello che nell’isola di Skiatos ha attaccato gli adesivi prima di me." Nessuno ha voglia di ridere. E su la Padania trovo ancora un articolo sulla donazione di organi, con riflessioni di Alberto Mingardi che mai io avrei pensato di leggere sulla carta stampata, in circolazione fra i cittadini di questa Italia, e quindi lette anche da insegnanti, presidi, studenti, genitori, che ho visto candidare nella Lega alle varie elezioni, anche in Trentino. Sentitene un brano: "Il vero problema sta nel fatto che in questo Paese ciò che dovrebbe essere la normalità (cioè l’accordo fra due persone consenzienti sulla vendita di un rene) rientra nell’illegalità, mentre invece ciò che è chiaramente illegittimo (cioè il furto di un rene perpetrato dallo Stato in virtù del silenzio-assenso) è prassi comune." E conclude che in materia di organi il "mercato nero" è di gran lunga più stimabile della "ragione di Stato".

Quando leggo il titolo de Il Messaggero, "I detenuti vogliono la parabola per vedere tutto il calcio", chiedo ai presenti di immaginare la tesi che il giornalista argomenterà nell’articolo: sarà favorevole o contrario a concedere la TV digitale ai quarantamila e passa occupanti i 288 istituti di pena italiani? Il tono del titolo fa presagire a tutti un’opinione contraria, ma la risposta è sbagliata. Ne nasce una discussione sullo scarto fra titolo e testo, sulle attese dei lettori, sui rapporti fra direzione e collaboratori.

Igiornali locali permettono ai lettori un corpo a corpo diretto con le notizie. L’Adige rievoca il 21 agosto, in un fondo di Livio Sparapani, la storia di una povera ragazza di Bresimo, un paese vicino, a cui il decano di Cles voleva, nel 1887, negare la sepoltura cristiana. E il cronista de l’Alto Adige (g.e.) racconta di un’interessante conferenza di uno storico locale su "Romeno imperiale" introdotta con belle parole dal sindaco. Uno dei presenti nega che il sindaco abbia pronunciato un’introduzione, e che la relazione storica su Francesco Giuseppe sia stata di un qualche interesse. Impariamo così a distinguere la cronaca dal commento. Il commento però è consumato con qualche attenzione se la cronaca, intanto, è fedele, caro g.e.!

La lettura collettiva dei giornali prosegue così, a Don, per una settimana. I partecipanti, sommando le cinque giornate, fra pioggia, nebbia, e qualche sprazzo di sole, non superano la cinquantina. E’ cioè un fallimento. La propaganda è stata certo scarsa, e l’orario infelice. Ma la ragione di fondo è che ci manca, a noi italiani, quello che Giacomo Leopardi chiamava "il gusto della conversazione". Sono in pochi a sentire il bisogno, e a godere, di un’ora di discussione in società. E nessuno dei partecipanti è di Don, di Amblar, di Cavareno, di Romeno: né uno studente né un pensionato residente nei quattro paesi trova la strada della Sala Convegni. I pochi intervenuti sono tutti villeggianti di quelle stesse località. Una ragazza, Daniela, di Varese, è presente, attentissima, a tutti gli incontri, e gli ultimi giorni sa fare, in pubblico, i suoi bravi interventi.

Viene da pensare che perché cresca un turismo umano, leggero, rispettoso dell’ambiente, che valorizza la conoscenza e l’incontro con la cultura dell’altro, deve cambiare la società. I suoi mezzi di comunicazione. La scuola innanzitutto, che formi dei giovani desiderosi di capire, per un momento anche in vacanza, anche attraverso la lettura di un giornale.

Ma il turismo a sua volta può favorire questo cambiamento. Sarò presuntuoso, o utopista, ma penso che i quattro studenti che hanno partecipato in Val di Non a questa esperienza sapranno apprezzare il prossimo anno scolastico il loro insegnante se, accanto al romanzo e alla poesia, userà in classe anche il giornale per educarli alla lingua. E sapranno sollecitarlo se lui non ne avrà voglia. E forse avranno capito perché il nuovo esame di stato non si accontenta più del vecchio tema di italiano, ma esige competenze più varie, anche quelle relative al giornale.

Le vacanze, dei tanti che si spostano su e giù per la penisola, dovrebbero estendere la conoscenza reciproca, e rafforzare persino l’identità nazionale. Invece - è la mia impressione - nei nostri paesi, fra gli abitanti del posto e chi viene da fuori c’è come una barriera che solo raramente si incrina. La conoscenza va organizzata, e richiede impegno, degli uni e degli altri.

Un giorno, stimolati dalla lettura dei quotidiani, due romani raccontano di aver visto allibiti, proprio a Don, radere al suolo l’edificio in cui stavano da sempre il municipio, la canonica, i vigili del fuoco. A loro sembrava una casa ancora solida e bella, semmai da ristrutturare: giudicano perciò uno spreco quell’abbattimento per sostituirlo con una nuova casa sociale. E lo addebitano, con parole aspre, all’autonomia speciale di cui godono immeritatamente i trentini, che pure non si stancano di criticare gli sprechi di Roma. E, preso coraggio, aggiungono che quattro comuni, a Don, a Romeno, a Cavareno, ad Amblar, con relativi sindaci e municipi, sono un altro spreco intollerabile, che grava sulle tasche dell’Italia intera.

Ma lì, nella Sala Convegni dell’Albergo di Don, non è presente nessuno in grado di replicare e spiegare. E così tornano a Roma, italiani ancora più sospettosi nei confronti di Trento.

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