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Gli ultimi cinquant’anni

Scipione Guarracino, Storia degli ultimi cinquant’anni. Sistema internazionale e sviluppo economico dal 1945 ad oggi. Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp.460, £.22.000.

La storia non è mai una scienza esatta, a maggior ragione quando la materia è vasta, fluida, e non ancora conclusa, come succede per l’età contemporanea. Siamo fra scienza e letteratura dunque, fra narrazione e (tentativi di) spiegazione. Con i dubbi e gli interrogativi lasciati da ogni opera aperta. Destinatari di questa "Storia degli ultimi cinquant’anni" sono quei cittadini,giovani soprattutto, che vogliono vedere il telegiornale e leggere un quotidiano, specialmente le pagine di politica estera, con intelligenza critica, da "cittadini del mondo". Il saggio di Scipione Guarracino va accompagnato da un atlante storico e da un dizionario dei concetti politici ed economici. Sarebbe utile anche, in una successiva edizione, predisporre l’indice analitico degli argomenti, che permetta di collegare fatti e problemi, necessariamente dispersi in un volume scritto secondo l’ordine cronologico. Solo così il lettore può ripercorrere con facilità, ad esempio, la storia del rapporto fra israeliani e palestinesi, della corsa agli armamenti e dei trattati sul disarmo, del ruolo avuto dall’Italia nel contesto mondiale. Il tema affrontato nel saggio è l’interdipendenza fra politica ed economia, vale a dire fra la guerra fredda tra Usa e Urss ed i cambiamenti nei modi di produzione, di scambio, di consumo, fino alla vittoria del sistema capitalismo-democrazia, e all’aprirsi di scenari inquietanti sul nuovo secolo. Da Bretton Woods e Yalta fino a Maastricht e alla guerra nel Kossovo. A metà percorso (pag. 217), premuto dalla minaccia atomica, l’autore ci svela la sua concezione antropologica: nella storia "non è molto razionale contare sulla razionalità degli esseri umani." Eppure, forse contraddittoriamente, ma spinto dal bisogno profondo di capire, e di agire, nel presente, ogni storico, e ogni uomo direi, si impegna a mettere ordine nel passato, a inventargli una razionalità nel ribollire confuso degli eventi, a costruire periodizzazioni, a scoprire costanti, varianti, analogie, a confrontare interpretazioni. In una dialettica, fra presente e passato, che non ha mai fine. E con una varietà di linguaggi storiografici, la cui comprensione e analisi sono di per sé formative. C’è in questo testo la descrizione dello stato delle cose, come nei paragrafi "le armi e le ideologie della guerra fredda", "la società dei consumi", "terzo mondo e non-allineamento"; e c’è la narrazione dei fatti e dei processi, che coglie prevalentemente l’aspetto dinamico della realtà storica, come ne "la formazione dei due blocchi politici e militari", "la prima e la seconda fase della decolonizzazione", "le tendenze demografiche e i problemi dell’energia e dell’ambiente". Ci sono pagine argomentative di spiegazione dei problemi: "le origini e le cause della guerra fredda", "crisi dei modelli di sviluppo", "le conseguenze del crollo sovietico sugli equilibri mondiali". E momenti di esplicita valutazione da parte dell’autore, tesi ad illuminare anche gli eventi più terribili, come il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, o il genocidio perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia. Con asprezza eccessiva, in qualche punto, come nel giudizio sull’esito finale del Sessantotto: "organicamente incapace di progettare qualsiasi nuovo modello politico: i seguaci del movimento si volsero a spettacolari ma innocui raduni musicali di massa; al posto della rivoluzione politica si contentarono della rivoluzione sessuale, e non riuscendo a far scomparire l’imperialismo fecero sparire la propria coscienza nelle ideologie hippy e nell’uso della droga." Ma con la capacità di mostrare, a livello semantico, il diverso significato politico sotteso a definizioni della guerra fredda come scontro ora fra "Usa e Urss", ora fra "capitalismo e socialismo", fra "mondo libero e comunismo", fra "imperialismo e totalitarismo". Le diverse forme di linguaggio storiografico si intersecano, supportate da tabelle statistiche.

Alla domanda, che Fernand Braudel espresse con parole semplici e pregnanti, se è l’uomo che fa la storia, o se è la storia che fa l’uomo, Scipione Guarracino risponde, mi pare, privilegiando la seconda ipotesi. La guerra fredda appare dalla sua ricostruzione "inevitabile", in quanto conseguenza del bipolarismo fra Usa e Urss prodotto dalla seconda guerra mondiale: essa cioè, entrato definitivamente in crisi il multipolarismo che aveva caratterizzato la politica europea degli ultimi due secoli e mezzo, era l’unica alternativa concreta ad una guerra apocalittica fra le due superpotenze e i rispettivi satelliti. In questa cornice bipolare, ordinata e minacciosa, avvengono i processi di de-colonizzazione e di sviluppo economico fra il 1945 e il 1973. In altre parole, i paesi africani e asiatici, nel diventare indipendenti, sono costretti a schierarsi con l’uno o l’altro blocco, e l’ONU, nata come progetto di un nuovo ordine mondiale di pace e cooperazione, si riduce, al di là delle intenzioni e della volontà dei fondatori, a sede delle denunce reciproche fra americani e sovietici. Divergenti erano infatti, fra le superpotenze vittoriose, non solo gli interessi strategici, ma anche i sistemi politici e i modelli economici. Il futuro economico del mondo stava per gli Usa "nella crescita del commercio internazionale, nella libertà di accesso ai mercati e alle risorse degli altri paesi"; per l’Urss in "una pianificazione socialista sostanzialmente autarchica". Erano visioni del mondo tendenzialmente universalistiche e contrapposte, che conducevano legittimamente a denominare il modello altrui, con connotazione negativa, come "totalitarismo" e "imperialismo". La competizione favorì però la crescita economica sia nei paesi a economia capitalistica sia in quelli a pianificazione socialista: la "società dei consumi" sembrò per un momento l’orizzonte capace di far incontrare pacificamente i due contendenti. Paradossalmente, ma non tanto, furono i tentativi di distensione e di coesistenza a sconvolgere quell’"ordine " e quella "stabilità". Furono le aperture all’Occidente per innalzare il livello dei consumi a provocare il crollo del blocco sovietico, perché solo le economie di mercato seppero adeguarsi alle rivoluzioni elettronica e informatica, tipiche dell’epoca post-industriale. L’apertura svelò l’impossibilità per il comunismo di coesistere con il dinamismo del capitalismo occidentale, e la sua potenza militare si rivelò una carta di basso valore. L’ottimismo si diffuse nell’89: la caduta del muro di Berlino fu interpretata come la sconfitta dell’impero del male ad opera del sistema capitalismo-democrazia. Non si vide che la fine dell’ordine bipolare, seppure fondato sull’equilibrio del terrore, avrebbe fatto emergere tensioni e conflitti difficilissimi da gestire.

Egli scenari su cui si apre il nuovo secolo sono veramente inquietanti. Il capitalismo globale, in cui più potenze economiche (gli Usa, l’Europa, il Giappone, forse la Cina) si sfidano sui mercati, ma un’unica potenza politica e militare è sopravvissuta alla guerra fredda o alla "pace dei quarantacinque anni", appare gravido di rischi. Alla contrapposizione Est-Ovest si sostituisce quella fra Nord sviluppato e Sud povero e sottosviluppato; o lo scontro di culture, che fa riemergere nei popoli le identità più profonde, integralistiche e pericolose; o il riesplodere incontrollato delle etnie e dei nazionalismi. Pur precipitati nell’anarchia, non c’è in Scipione Guarracino nessuna nostalgia dell’ordine e della sicurezza garantiti dalla guerra fredda. Forse si poteva uscirne, superandola, in modo diverso, se l’Occidente, abbattuto il comunismo oppressivo e sanguinario, non avesse dirottato la sua forza in una crociata di distruzione anche dello Stato sovietico, che era un interlocutore e un contrappeso ancora necessario: e così oggi sono tornati fra noi i "turchi" del nazionalismo, del fondamentalismo, delle pulizie e delle guerre etniche, del disordine internazionale.

E'un’analisi in cui prevale il pessimismo, e il malinconico Gorbacev le riesce l’eroe più congeniale. Nella storia giocano un ruolo importante il caso e la necessità. Deng Xiao Ping ritorna sulla scena tre volte. La guerra fredda, oggi che non c’è più, è scoperta come inevitabile alternativa, allora, non all’idillio della pace, ma alla possibile apocalisse. Divelta la cortina di ferro, il capitalismo e la democrazia hanno oggi a disposizione il mondo intero. L’assalto al mercato, iniziato nel 1917 con la rivoluzione bolscevica, si è risolto in una disfatta, ma ha lasciato inevase alcune domande brucianti. E la stessa democrazia, quando i conflitti fra culture ed etnie diventano radicali e assoluti, appare strumento inadeguato di soluzione. Nei paesi del Terzo e Quarto Mondo, né la povertà, né il difficile rapporto fra identità e modernizzazione, sono questioni risolvibili semplicemente con la legge della domanda e dell’offerta, o con la conta dei voti alle elezioni. Nell’arena della storia, lo spazio d’azione per gli uomini, liberi e razionali, appare ristretto, ma non inesistente. A noi italiani viene l’invito, pressante, a favorire nel mondo la nascita di un multipolarismo politico, come condizione più favorevole per la pace e per uno sviluppo economico più equilibrato: a divenire, in definitiva, europei. Le pagine dedicate all’Italia sono piuttosto scarne. L’unica figura, oltre i papi, citata in modo significativo, è quella di Alcide De Gasperi. Ma scopriamo così che i nostri problemi sono ormai quelli dell’Europa e del mondo. Leggere del nostro Welfare State in un capitolo dedicato alle tendenze demografiche in corso a livello planetario aiuta meglio a capirci. Che oggi due genitori anziani pesino economicamente su poco più di un figlio adulto (contro due genitori su quasi tre figli del passato) rappresenta insieme il successo, la crisi, la necessità della riforma dello Stato sociale che abbiamo saputo in qualche modo costruire nei nostri ultimi cinquant’anni di storia.

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