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QT n. 16, 25 settembre 1999 Servizi

Il lavoro per italiani e immigrati: due mondi separati

Una ricerca sul mercato del lavoro in Alto Adige dimostra, se ancora ce n’era bisogno, che i cittadini stranieri non rubano il lavoro a nessuno.

In Italia, per responsabilità della politica, ma grazie anche alla disinvoltura dei media, l’attenzione ai problemi che via via si presentano percorre strade tortuose. Pensiamo all’ordine pubblico: dopo una stagione in cui, soprattutto da destra, si è strillato contro un presunto strapotere di magistrati forcaioli, da un giorno all’altro si è invertita la rotta. Il problema, ora, non consiste più nelle garanzie da assicurare a indagati e condannati, ma viceversa nel bisogno di sicurezza dei cittadini, che dallo Stato non riceve una risposta adeguata. Naturalmente entrambi i problemi sono reali, ma discutere di tutti e due contestualmente, cercando di armonizzare le relative risposte, sembra una pretesa eccessiva.

Il dibattito sull’immigrazione ha anch’esso conosciuto qualcosa del genere: l’ostilità nei confronti di questi "diversi" ha puntato il dito, di volta in volta, sullo straniero criminale, sullo straniero che ruba casa e lavoro agli italiani, sullo straniero che invade il Belpaese distruggendo le nostre specificità e imponendo i propri costumi, da quelli religiosi a quelli gastronomici, ecc. Tutti temi che questo giornale ha trattato a più riprese; stavolta ritorniamo a parlare di lavoro, grazie ad una recente indagine che ci fornisce utili indicazioni per la comprensione del fenomeno.

L’utilità del lavoro degli immigrati all’interno del nostro sistema economico è un dato di fatto che ormai dovrebbe essersi imposto all’opinione pubblica, ma lo stereotipo del "lavoro rubato" è comunque duro a morire, soprattutto in una situazione di elevata disoccupazione come la nostra. E allora tornano utili ricerche come questa, commissionata allo Studio Res di Trento dall’Istituto per la Promozione dei Lavoratori (ente pubblico di Bolzano costituito da Provincia e Sindacati confederali), che ha effettuato uno studio quantitativo e qualitativo sulla situazione dei lavoratori stranieri in Alto Adige.

Come giornale di Trento, avremmo naturalmente preferito poter riferire della situazione nella nostra provincia, ma da quanto possiamo constatare, qui da noi di ricerche sulle molte tematiche riguardanti l’immigrazione da qualche anno se ne fanno di rado (o non se ne fanno proprio più), per cui, come già in altre occasioni, ci vediamo costretti a parlare del vicino Sudtirolo, dove comunque si vive una realtà abbastanza simile alla nostra per consentirci delle riflessioni in proposito.

Cominciamo con i dati riguardanti le presenze di stranieri in Alto Adige, che al 1° gennaio 1997 risultavano 20.514, con una percentuale sulla popolazione complessiva molto alta (il 4.5%), inferiore, in Italia, solo a quella del Lazio, e molto superiore anche a quella del Trentino (2.5%), che a quella data contava 11.619 stranieri. Ma l’apparente anomalia si spiega immediatamente constatando che in provincia di Bolzano, terra di frontiera e di intensi scambi economici col mondo germanico, una fetta consistente di quegli stranieri sono tedeschi e austriaci; gli extracomunitari, in realtà, sono 13.237 (il 64% di tutti gli stranieri), un dato quindi vicino a quello del Trentino, dove i quasi 10.000 extracomunitari rappresentano invece una percentuale molto più consistente (83%) di tutti i cittadini stranieri.

Lo stesso discorso vale per i residenti, che risultano essere, in Alto Adige, 9.368; dei quali però oltre 4.000 sono cittadini dell’Unione Europea, fra cui 2.611 tedeschi e 1.160 austriaci. Gli extracomunitari - 5.248, ossia l’1.2% della popolazione - diventano 7.296 al 1° gennaio dell’anno in corso. Le aree di provenienza sono, in ordine decrescente, l’Est europeo, i paesi arabi, l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Le donne, poco più della metà rispetto agli uomini, sono particolarmente numerose fra i cittadini dell’Europa orientale e (percentualmente) fra i sudamericani.

Nel corso degli anni ’90 gli immigrati residenti sono in continuo aumento: una crescita che ha un’impennata del 50% nel 1992, per poi continuare fino ad oggi ad un ritmo attorno al 20% annuo. In aumento, ovviamente, anche le domande di ricongiungimento familiare: sono state 154 in tutto il 97 e 88 solo nei primi quattro mesi del ’98.

Ed eccoci al tema del lavoro: quali siano le mansioni prevalentemente svolte dai cittadini stranieri, è noto: sono i cosiddetti lavori con le 3 D: dirty, dangerous, demanded to much (sporchi, pericolosi, onerosi). Li ritroviamo prevalentemente nel settore alberghiero (in maniera costante nel corso dell’anno) e in agricoltura, in questo caso soprattutto fra giugno e settembre.

Il loro impiego, a detta degli imprenditori, appare indispensabile, perché sono spesso i soli disponibili per posti di lavoro che non richiedono qualificazione, distanti dalla residenza, poco tutelati, caratterizzati dal massimo della flessibilità e, come vedremo, ad alto rischio di disoccupazione.

Va aggiunto che, accanto a queste "qualità" del lavoratore extracomunitario, i datori di lavoro fanno presenti anche alcune difficoltà: la necessità del bilinguismo, ad esempio, rende problematici certi ruoli (il cameriere, ad esempio) che prevedono il contatto col pubblico. Più grave un problema, che sorge soprattutto nei rapporti coi lavoratori maghrebini, riguardante il rispetto delle regole in tema di ritmi lavorativi, orari e ferie; un problema che spesso si traduce in un eccesso di vertenze sindacali.

Da che dipende? Si tratta evidentemente di un difetto di comunicazione - rispondono i ricercatori. Servirebbe maggiore chiarezza al momento dell’assunzione, in tema di regole; e soprattutto bisognerebbe approntare per gli immigrati un intervento di formazione culturale, di conoscenza linguistica e del territorio, di chiarimento generale sui diritti e sui doveri; e questo non solo allo scopo di rendere meno conflittuale il rapporto di lavoro, ma anche per consentire loro di sfruttare meglio le potenzialità, le capacità professionali di cui dispongono (a proposito delle quali, va aggiunto, sarebbe buona cosa indagare per saperne di più).

Fin qui, come si vede, la ricerca appare come un approfondimento di cose che, più o meno, già si sanno. Più interessante è vedere in che modo gli immigrati arrivano al posto di lavoro. Le strade sono sostanzialmente due: per chi già risiede in Italia ed ha il permesso di soggiorno, c’è l’ufficio di collocamento, mentre per chi ancora vive in patria c’è la possibilità di ottenere, dietro richiesta di un imprenditore, una autorizzazione al lavoro in Italia, utilizzata quasi esclusivamente per occupazioni a tempo determinato, con l’obbligo di tornare al Paese di provenienza non appena l’esperienza lavorativa si sia conclusa.

Questa seconda modalità di assunzione, in provincia di Bolzano, è straordinariamente diffusa. Pur tenendo conto del fatto che non sempre la concessione di un’autorizzazione porta in realtà ad un rapporto di lavoro (in un 20% di casi, la pratica non ha effetti), resta il fatto che l’Alto Adige è al primo posto in Italia per autorizzazioni al lavoro subordinato (6.876 nel 1996), seguito a grande distanza dal Trentino (3.018 nel ’96, 3.668 nello scorso anno), e, molto più indietro, da realtà vicine ben più grandi come il Veneto (541), il Friuli (510) e l’Emilia (652). Un dato all’apparenza sorprendente, anche quando si ricordi che queste assunzioni, in Alto Adige come in Trentino, riguardano soprattutto impieghi stagionali in agricoltura e nel turismo.

L’analisi diventa ancor più interessante esaminando gli avviamenti al lavoro avvenuti tramite l’ufficio di collocamento (4.436 nel ’96), che hanno interessato in prevalenza europei dell’est (per il 56% del totale) e arabi (22%).

Esaminando la situazione degli iscritti al collocamento durante gli anni ’90, si constata che fino al ’97, questi si sono mantenuti stabilmente attorno a quota 500, in una percentuale (5% di tutti gli iscritti) che potremmo ritenere fisiologica. Poi, nel ’96, si passa a 740 e nel ’97 addirittura a 1.148 (13.9%): gli immigrati con un lavoro, cioè, sono scesi dal 91.7% del ‘95 al 77.8% di fine ’96.

Siamo di fronte ad un aumento complessivo della disoccupazione? Tutt’altro: mentre gli stranieri in cerca di lavoro aumentano, quelli italiani diminuiscono, tanto che l’occupazione nel suo complesso è cresciuta in quel periodo dal 95% al 96.2%. A volerci scherzare sopra, si potrebbe addirittura ipotizzare che siano semmai gli italiani a rubare il lavoro agli immigrati.

La conclusione ci sembra in realtà scontata: siamo di fronte a due mercati del lavoro paralleli, che influiscono ben poco l’uno sull’altro. In parole povere: ci sono lavori per gli italiani e lavori, diversi, per gli immigrati. "Né la manodopera immigrata stanziale, né l’ingente arrivo di lavoratori stagionali su invito delle imprese - commentano in proposito gli autori della ricerca - sembrano portare alcuna turbativa negli equilibri del mercato del lavoro locale".

Un’altra constatazione che emerge dall’analisi dei dati, e che appare di più difficile interpretazione, è che, proprio mentre aumentano gli stranieri disoccupati presenti in Italia e iscritti al collocamento, aumenta altresì, da parte delle imprese, il ricorso alla chiamata al lavoro per stranieri residenti all’estero, una modalità evidentemente più lunga e complessa. Come mai i datori di lavoro ricorrono in così scarsa misura alle riserve di forza lavoro già disponibili sul posto?

In proposito si possono solo fare delle ipotesi. Forse vengono privilegiati per le assunzioni i cittadini stranieri originari di certe aree, considerati più affidabili ma non presenti in numero sufficiente alle necessità (è noto che per la raccolta della frutta europei e nigeriani vengono preferiti rispetto agli arabi).

O forse una certa fetta degli stranieri ufficialmente disoccupati, in realtà non è disponibile, perché lavora in nero; anche se, a questo proposito, la ricerca dà una valutazione abbastanza ottimistica: "Non particolarmente rilevante risulta il lavoro irregolare, che... viene stimato su livelli piuttosto contenuti. In particolare, più che di lavoro totalmente nero, si può parlare di parziale irregolarità che si riscontra nell’esubero del monte ore o nel lavoro straordinario non retribuito o non regolarizzato sotto il profilo contributivo".

Nella ricerca dello Studio Res ci sono anche alcuni accenni e considerazioni sulla situazione abitativa degli immigrati, perché anche il problema dell’alloggio, come quello occupazionale, è fondamentale in vista di un percorso di integrazione.

"L’accesso all’edilizia pubblica - si legge in proposito - non è impedito per legge come qualcuno sostiene, ma certo è problematico per gli immigrati possedere i requisiti richiesti, in primis la residenza, in base alla durata della quale viene assegnato il punteggio. Al momento attuale risulta che soltanto 11 (undici) alloggi IPEAA sono stati concessi a cittadini extracomunitari. Nel mercato privato si devono invece considerare, oltre che lo standard elevato degli appartamenti, le riserve talora manifestate da numerosi proprietari nei confronti di tali inquilini.

Per gli immigrati regolarmente occupati questo stato di cose comporta una lunga permanenza nelle strutture di pronta accoglienza, che tendono a diventare situazioni definitive".

L’immigrato ha già i suoi bei problemi ad integrarsi nelle nostre comunità, e frequentemente è lui stesso che tende ad auto-escludersi, anche per adeguarsi "a quelle che ritiene essere, non sempre a torto, le aspettative degli autoctoni nei suoi riguardi, in parole povere, che lavori e rimanga al suo posto".

Quando poi vengono ad aggiungersi delle difficoltà strutturali come l’impossibilità di trovare una sistemazione abitativa dignitosa, le conseguenze sono ovvie: una condizione, anche per chi ha un lavoro, di emarginazione, con ripercussioni sull’auto-stima; il rischio di devianze più o meno gravi che a loro volta innescano reazioni xenofobe presso gli italiani; e infine l’impossibilità del ricongiungimento coi familiari rimasti in patria, che, quando avviene, si dimostra un fondamentale elemento di stabilizzazione e un forte stimolo all’inserimento.