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QT n. 4, 19 febbraio 2000 Servizi

Pillole, forza di volontà e aiuto reciproco

Due giorni fra gli ospiti del Centro di salute mentale di Trento.

Uno magari è convinto di non aver pregiudizi al riguardo, ma poi quando si ritrova in mezzo a una quindicina di persone in vario modo etichettate come "malati di mente", si sente attirato, forse inevitabilmente, da tutti quei volti, per cercarvi la traccia visibile di un disturbo che nessuna analisi di laboratorio è in grado di misurare. E fra quei volti vede di tutto, in una linea continua che va dalle espressioni più normali e serene ad una profonda tristezza, fino a sguardi fissi, apparentemente impossibili da contattare, a soliloqui continui e incomprensibili.

Siamo al Centro di salute mentale di Trento in via Petrarca, una delle dieci strutture del genere sparse per la provincia; dopo aver trattato, nello scorso numero, del disagio psichico in termini generali, abbiamo voluto constatare cosa si fa, oltre all’intervento farmacologico, per il recupero di queste persone.

Qui hanno sede un ambulatorio, un day-hospital, un centro diurno e delle équipes domiciliari. Al Centro diurno, in particolare, si svolgono quotidianamente delle attività di vario genere: dall’incontro mattutino (una sorta di auto-mutuo aiuto) in cui gli utenti, sollecitati e guidati da un paio di operatrici, si scambiano impressioni e racconti di vita, a varie attività quali teatro, musica, danza, giornalismo, pittura, cineforum, gite, feste, visite al mercato del giovedì.

"Lo scopo - mi spiegano - è quello di attivare le risorse che queste persone ancora possiedono, di condurle alla consapevolezza che sono in grado di stare in mezzo agli altri: è un momento di passaggio per superare le situazioni di crisi. Accanto a questo lavoro, ne sta partendo un altro, di intervento sulle famiglie, alle quali vogliamo fornire informazioni di base sulla malattia e nuovi strumenti di comunicazione, una nuova capacità di ascolto nei confronti di persone che sono cambiate rispetto a quelle che conoscevano".

Marino (questo nome, come gli altri, non è naturalmente quello reale), uno dei partecipanti all’incontro della mattina, dà una sua spiegazione dell’utilità di questi appuntamenti: "Sì, ho una croce da portare, ma poi vengo qui e vedo che c’è gente che ha una croce più pesante della mia e allora mi tiro su, e vengo volentieri. Anche ieri volevo venire e ho fatto l’autostop, ma non passava nessuno e son tornato indietro che piangevo. Oggi ho preso la corriera, sono venuto e sono stato contento".

Anche Stefano, coma altri poi, è dello stesso parere: "Mah, ci sono momenti sereni e altri terribilmente neri. Ho un fisico che potrei spezzare un uomo in due, ma basta una parolina e finisco a terra. Ieri ero a pezzi, poi mi sono accorto che c’era Luciano che soffriva più di me: ho fatto il possibile per aiutarlo e così i miei guai sono passati in secondo piano. Ma alla fine ho dovuto cedere le armi, perché Luciano è scappato, perdendo anche lo zainetto col blocchetto degli assegni; allora mi sono precipitato in banca a bloccare il conto. Stamattina son venuto a sapere che è ricoverato in ospedale. Oggi pomeriggio vado a trovarlo: gli porto il pigiama, la saponetta... quello che gli serve".

Si dirà che queste sono persone del tutto "normali", poco o tanto depresse magari, ma non molto di più. Ma le operatrici mi dicono invece che i partecipanti a queste riunioni sono pazienti affetti da patologie medio-gravi, il che, in alcuni casi appare evidente.

Qualcuno di loro è indirizzato qui dai servizi, altri ci vengono di loro iniziativa e ci rimangono quanto vogliono: per un’ora - il tempo di partecipare al gruppo - o per tutta la giornata, pranzando alla mensa interna e poi svolgendo altre attività organizzate dal Centro. Le cifre che ci vengono fornite dicono che nel 1999 il Centro Diurno di Trento è stato frequentato da 150-200 persone, con una presenza media giornaliera di 35.

Man mano che la riunione procede, si capisce sempre meglio a cosa essa serva: alcuni dei presenti - che fin qui avevano assistito silenziosi, con lo sguardo fisso davanti a sé - un po’ perché delicatamente sollecitati dalle operatrici, un po’ perché tranquillizzati dal clima soft che subito si instaura, a un certo punto si sgelano: il "matto" si trasforma in una persona semplicemente molto triste e fragile, consapevole della propria sofferenza: "A farmi star male - dice a bassa voce Antonio - sono i pensieri che mi ronzano per la testa. Pensieri stupidi, ma però me la prendo lo stesso: sono un tipo emotivo..."

"Qui siamo tutti tipi emotivi, sensibili- gli risponde Vincenzo - La vita è quello che è. Se ti capita una cosa devi difenderti. Quel che ho capito è che devi vivere alla giornata".

Antonio riprende il suo racconto e man mano che procede sembra rasserenarsi: se al principio si era detto poco fiducioso nei risultati di queste chiacchierate, adesso ammette che sì, forse a qualcosa servono.

Qua e là, dai racconti, emergono alcune delle vicende che - a detta dei protagonisti - li hanno spinti ai margini della normalità, in diversi casi a tentare il suicidio: vicende sentimentali, difficoltà economiche, perfino la nascita di un figlio. Accenni che inducono la curiosità di saperne di più, sulla loro vita e sulla loro malattia: cosa mai avranno certuni, che appaiono così assolutamente normali? E certi altri, che ad un profano sembrano irrecuperabili, lo sono davvero? Ma queste curiosità non possono essere appagate: sui singoli casi le operatrici non possono ovviamente rivelare nulla.

Un’ultima fantasiosa uscita di Marino ("Che bello se sapessimo come si fa a far scattare la molla per rendere tutti felici! Lo farei anche a costo della vita...") e si esce dalla saletta per una breve colazione, dopo di che c’è la riunione del gruppo che si occupa del giornalino interno, "Liberalamente": manca qualcuno di quelli di prima e c’è invece qualche faccia nuova. Nella sala, seduta per conto suo ad un tavolino, c’è Laura, che dipinge e intanto canta. Poi tace per non disturbare la lettura degli articoli, ma ripetutamente, prendendo spunto dai discorsi che ascolta, attacca qualche altra canzone, per poi spiegare: "Stamattina sono fuori di me. Penso al mio amore, ch’è un ragazzo di strada" e canta le prime note di una canzone degli anni ’60 con quel titolo, suscitando il divertimento dei presenti. E continuerà per un pezzo a lanciare sui presenti brevi interventi ricchi di ironia e di acutezza, fino a far apparire (al profano almeno) assolutamente labile il confine fra il disturbo mentale e una fantasia vivace ed estroversa.

La lettura di alcuni articoli (vedi la scheda a pag. 29) è un modo per riprendere, in maniera più mirata, la discussione di prima su se stessi e sugli altri: "Togo pilole dall’87 - attacca Vincenzo, nuovamente sfiduciato - ma la testa no me funziona pù. Come eser un pesce for d’acqua. Doverìa star en casa senza veder nesun".

"Io è da quarant’anni che prendo pillole - lo interrompe Laura - e ghe n’ho piene le bale!" E poi, più seria: "Per guarire ci vogliono pillole, forza di volontà e aiuto reciproco".

"La forza de volontà, la è quela che me manca... Però bisogna che venga chi: a star sempre a casa ven fora tuti i problemi" - conclude Vincenzo, che anche stavolta è riuscito a riprendersi un po’ dallo sconforto.

L'indomani, all’appuntamento delle nove e un quarto, c’è molta più gente, forse 25 persone. Due partecipano per la prima volta: sono attualmente ricoverati in ospedale e li hanno accompagnati al Centro per poi riportarceli al termine dell’incontro.

Una di loro, Giovanna, si fa notare particolarmente per certi brevi interventi che esulano dai temi di cui si sta parlando: sta evidentemente seguendo un suo percorso di pensieri che all’inizio non coincide con i discorsi che intanto si stanno facendo: "Stamattina mi hanno misurato la pressione - esordisce - e hanno detto che va bene. Allora mi mandano a casa?" E poi, ripetutamente torna a esprimere il suo assillante desiderio di lasciare l’ospedale per tornare in famiglia.

Oggi il clima è un po’ diverso rispetto a ieri, lo scambio appare più faticoso; il tema di conversazione finisce per essere la notte scorsa, perché curiosamente sono in molti ad avere avuto un sonno agitato, ad aver dormito poco e male. "Stamattina in corriera - nota Marino - non c’era la solita allegria, con la gente che parla per tutto il viaggio. Stavano tutti zitti. Probabilmente è il tempo che sta cambiando. Io dico che fra un paio d’ore nevica..."

Per l’operatrice oggi è una bella fatica sollecitare la conversazione, ma alla fine qualche risultato arriva.

"Io soffro di un complesso di inferiorità, ho paura ad affrontare la gente" - dice uno, al che Giovanna, che nel frattempo si è tolta gli occhiali scuri, interviene, ancora fuori tempo ma non più fuori tema: "Ci vorrebbe più dolcezza nei rapporti fra le persone!"

"Ieri siamo andati a girare per il mercato, - dice un altro - abbiamo incontrato degli amici e ci siamo fermati a parlare. E’ stato bello... Non mi piace quando incontri qualcuno che conosci e lui ti dice ciao e basta. E’ bello parlarsi..."

"Ma nel corridoio dell’ospedale cos’è che ci si può dire?" - commenta Giovanna.

Poi il tema della conversazione cambia, perché all’improvviso - interrompendo chi sta parlando - Renzo se ne vien fuori chiedendo se i testimoni di Geova sono dei diavoli; e allora il discorso si sposta fino alla fine sulla religione; e anche qui Giovanna trova il modo di agganciarsi per ribadire la sua aspirazione a rapporti più autentici e il suo bisogno di essere aiutata: "Ci vorrebbe uno spirito-guida, un angelo custode..."

Al termine di questa esperienza, mi ritornano in mente le parole del dott. De Stefani con cui si chiudeva il servizio del numero scorso, il suo richiamo alla necessità di una società più accogliente, più tollerante, senza la quale il lavoro che fanno i servizi perde buona parte della sua efficacia.

Una mattina della settimana scorsa, in un bar del centro di Trento, capitò un ragazzo che appena varcata la soglia si mise a fare ad alta voce qualche considerazione sulle condizioni meteorologiche, per poi annunciare che quella mattina doveva recarsi al Centro di Salute Mentale; non conosceva nessuno dei numerosi avventori seduti ai tavolini, eppure si rivolgeva proprio a loro, aspettando che qualcuno incrociasse il suo sguardo. Ma solo il barista gli diede retta; tutti gli altri intensificarono la loro attenzione sul giornale che avevano davanti o sulla conversazione che stavano conducendo: come quegli studenti che quando il professore scruta la classe per decidere chi interrogare, cercano di non farsi notare nascondendosi dietro il compagno del banco davanti.

Atteggiamento, in fin dei conti, peraltro comprensibile: perché quelle persone erano attese da una lunga giornata di un lavoro che magari non gli piaceva; perché sulle strade, ogni giorno, c’è da evitare il senegalese che vuol venderti l’accendino o il tossicodipendente che ti chiede le mille lire; perché un atteggiamento amichevole da parte di uno sconosciuto suscita immediata diffidenza; perché infine l’altrui disturbo psichico ci turba più di ogni altra patologia.

Una informazione più corretta e un qualche contatto diretto con queste persone sarebbero il miglior modo per smantellare certe paure e, in fin dei conti, anche per dare un modesto contributo affinché chi soffre possa guarire o quanto meno attestarsi su un decoroso equilibrio.

Altri ostacoli appaiono invece pressoché invalicabili: dall’organizzazione complessiva della società (tempi di vita convulsi, competitività...) a una maniera strumentale e superficiale di gestire i rapporti interpersonali: non a caso, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, i nuovi casi di schizofrenia rilevati ogni anno sono, nei paesi industrializzati, in numero quasi doppio rispetto al terzo mondo.