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L’anomalia eritrea

Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello (Perugia)

C'è qualcosa che non convince nella guerra tra Etiopia ed Eritrea. Ufficialmente una guerra di confine scatenata, secondo quasi tutti gli osservatori internazionali, dalla piccola Eritrea ai danni del colosso etiopico per qualche chilometro quadrato in più. E solo cinque anni dopo aver conquistato l’indipendenza, grazie a una lunghissima lotta di liberazione durata trent’anni.

Ma, se si va a scavare dietro le prese di posizione ufficiali, si scopre che fu l’Etiopia a proclamare lo stato di guerra con un pronunciamento ufficiale del Parlamento del 13 maggio 1998; che fu il leader etiopico Meles Zenawi a scatenare la prima violenta offensiva su larga scala nel febbraio 1999, violando la moratoria sugli attacchi aerei; che fu ancora l’Etiopia ad applicare una folle politica di deportazione di tutti coloro che avevano un qualche legame con gli ebrei.

Come mai tutti gli organismi internazionali, con l’unica lodevole eccezione di Amnesty Internazionale, hanno girato la testa dall’altra parte per non vedere? Lo abbiamo chiesto ad Alberto D’Angelo, studioso e osservatore attento della situazione dell’Africa orientale.

"La guerra tra Etiopia ed Eritrea - ci dice D’Angelo - è stata causata da almeno tre ordini di ragioni, che si intersecano e si sovrappongono. La prima riguarda la devastante crisi di consenso di cui soffre il regime etiopico. Meles Zenawi, insomma, tenta con questa guerra di mascherare i propri gravissimi problemi interni. La seconda ragione, che si intreccia con la prima, è di ordine strategico e riguarda la crisi dei rapporti tra Europa, Stati Uniti e Israele. L’Eritrea ha negato agli Stati Uniti, nonostante le pressanti richieste, la possibilità di impiantare una base nel suo territorio, in un’area strategica estremamente importante per gli interessi geopolitici USA. A tutto ciò va aggiunto il disinteresse della comunità internazionale nei confronti dell’Eritrea, che non rappresenta un mercato appetibile per nessuno".

E l’Etiopia, invece, cosa rappresenta per l’Occidente?

"L’Etiopia è una greppia ricchissima per molti. E’ un grande paese con decine di milioni di abitanti, nel quale ci sono grossi investimenti europei".

Per l’Eritrea allora non ci sono possibilità?

"E’ necessario che l’Eritrea riesca a tirar fuori dal cilindro una partnership diplomatica importante, come la Francia o magari la Germania. E forse qualcosa in questo senso si sta muovendo. Prima della guerra il traffico aereo da e per l’Eritrea era gestito da Etiopian Airline. Da quando è iniziata la crisi, invece, tutto il traffico aereo eritreo se l’è accaparrato la compagnia tedesca. E questo potrebbe essere un segnale. Resta da chiedersi però quale sia la capacità negoziale della Germania nei confronti di Stati Uniti ed Israele. E, soprattutto, se e quanto il governo tedesco abbia interesse a inserirsi in un discorso di natura strategica che riguarda il Corno d’Africa, questa striscia di terra sul Mar Rosso, di fronte al mondo arabo e alle vie del petrolio".

Nel suo libro "Eritrea, guida storico-politica" lei ha parlato di una particolare originalità di questo paese. Ci vuol dire di cosa si tratta?

"Si tratta di una originalità particolarissima che non ha eguali nel mondo ed è portata avanti in un momento in cui è completamente controcorrente. L’Eritrea, in altre parole, è un paese che non si allinea al nuovo ordine mondiale; applica la democrazia ma centralizzata e controllata dal partito; apre al mercato ma assicura l’intervento dello Stato a favore delle cooperative di donne, ciechi, disabili... E poi ha realizzato una riforma agraria di una maturità straordinaria, in cui anche le donne sono assegnatarie di pezzi di terra. Tutto ciò è avvenuto - non bisogna dimenticarlo - in un contesto come quello africano in cui alle donne si riserva l’infibulazione e la mutilazione genitale. E’ un’anomalia che potrebbe fare scuola, è questa la paura, com’è accaduto con Cuba dopo la caduta del muro di Berlino. Castigata come precedente e potenziale esempio, anche l’Eritrea viene martoriata per la sua sfrontatezza e la sua voglia di autodeterminazione. E per la sua ispirazione. Pur non essendo infatti marxista in senso classico, mantiene delle forti istanze progressiste a dispetto di tutto: delle circostanze storiche, delle crisi, delle pressioni...".

In questo contesto, che ruolo gioca l’Europa?

"Quello di Ponzio Pilato, sostanzialmente. Anche se negli ultimissimi tempi c’è stato qualche positivo sussulto. Ma dall’inizio della crisi la posizione europea è stata di totale allineamento alle tesi dell’Onu e dell’Organizzazione per l’Unità Africana (Oua), che hanno sposato a tutto tondo le pretese etiopiche. Ma qualcosa a quanto pare si sta muovendo; adesso c’è qualche elemento di diversità del quale si deve prendere atto. Purché non sia una differenziazione pelosa, nominale. E per far in modo che non vada a finire così, occorrono atteggiamenti diplomatici efficaci e coerenti. Il problema vero, purtroppo, è che l’Unione Europea non ha alcun interesse a scendere in campo a favore dell’Eritrea, perché nessuno ha delle attività economiche importanti in quel paese".

E’ insomma un puro calcolo economico a prevalere. E quindi, alla fine, l’Eritrea verrà normalizzata?

"Mi auguro di no, ma se purtroppo succedesse, non me ne stupirei. Dovrebbe accadere un miracolo di ordine mediatico, com’è avvenuto in Chiapas, per porre sotto le luci della ribalta ciò che sta avvenendo in Eritrea".

Come mai c’è questa disattenzione dei media nei confronti della guerra che si combatte nel Corno d’Africa?

"Perché a differenza dell’America latina dove sono nati quasi tutti i miti delle piazze progressiste europee ( Fidel Castro, Ernesto Guevara, Zapata...), qui non c’è nulla, nessuno li conosce. Nella logica di potenza che domina il nostro tempo è impensabile che un piccolo paese africano di tre milioni e mezzo di abitanti si permetta il lusso di non far entrare le multinazionali, di rifiutare i prestiti del Fondo Monetario Internazionale, di dire di no agli Stati Uniti... Se mettiamo insieme tutti questi elementi, le nebbie attorno alla guerra Etiopia-Eritrea si diradano. E si scopre che le questioni di confine sono solo un banale pretesto".

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