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Apartheid magari no, ma “violenza etnica” sì

Dal “Decalogo per la convivenza” di Langer ai dieci comandamenti di Durnwalder.

E’ scoppiata nuovamente sui giornali di Bolzano la polemica sull’apartheid. E’ stato Sergio Fabbrini stavolta ad accendere la miccia. E ne sono seguite prese di posizione che hanno fatto emergere anche qualche voce nuova e interessante, che sostanzialmente hanno confermato l’analisi del politologo trentino, quando mette il dito sulle piaghe dell’autonomia sudtirolese.

Durnwalder ha risposto da par suo, con i dieci punti per la tutela delle minoranze, spiattellati ad una platea sbalordita durante un convegno della Regione sull’esperienza sudtirolese e gli sviluppi nei Balcani: una risposta non solo a Fabbrini, ma anche a chi ritiene la minoranza nazionale di lingua tedesca sufficientemente tutelata e pone l’attenzione sulla necessità di sviluppare gli aspetti della comunicazione interna e con l’esterno e la capacità di relazionarsi col resto del mondo. Dieci punti che rispondono, anche nel numero, al "Tentativo di decalogo per la convivenza" pubblicato da Alexander Langer nel 1994.

Questi, in breve, i dieci "comandamenti" di Durnwalder: 1. Equiparazione della lingua; 2. Scuola propria; 3. Tutela della cultura, usi, costumi, volontariato diversi per gruppo; 4. Sistema di informazione in madrelingua; 5. Scambi internazionali con il mondo culturale di provenienza; 6. Partecipazione alla vita pubblica soprattutto nell’amministrazione attraverso la proporzionale; 7. Economia attenta alla particolarità del territorio, a creare i posti di lavoro nel territorio e a valorizzare le risorse locali; 8. Sicurezza contro l’assimilazione e sviluppo "naturale" del gruppo; 9. Importanza della funzione dello stato che riconosca come suo interesse la tutela delle minoranze; 10. "L’UE deve capire che quando gli Stati non esisteranno più, le minoranze devono essere tutelate, anche attraverso l’istituzione di una Corte di giustizia che tuteli le minoranze".

Questi invece i titoli del "Tentativo di decalogo per la convivenza" di Langer: 1. La compresenza plurietnica sarà la norma più che l’eccezione: l’alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza. 2. Identità e convivenza: mai l’una senza l’altra; né inclusione né esclusione forzata. 3. Conoscersi, parlarsi, informarsi, interagire; più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo. 4. Etnico magari sì, ma non a una sola dimensione: territorio, genere, posizione sociale, tempo libero e tanti altri denominatori comuni. 5. Definire e delimitare nel modo meno rigido possibile l’appartenenza, non escludere appartenenze ed interferenze plurime. 6. Riconoscere e rendere visibile la dimensione plurietnica: i diritti, i segni pubblici, e gesti quotidiani, il diritto a sentirsi di casa. 7. Diritti e garanzie sono essenziali ma non bastano; norme etnocentriche favoriscono comportamenti etnocentrici. 8. Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. 9. Occorrono traditori della compattezza etnica, ma non transfughi. E una condizione vitale: bandire ogni violenza. 10. Le piante pioniere della cultura della convivenza; gruppi misti interetnici.

La differenza di visione è straordinaria. Non perché chi "va oltre" non condivida l’obiettivo della tutela culturale delle minoranze, ma perché è cieco e inconsapevole chi crede di tutelare una minoranza congelandola in un momento della sua storia e farne sopravvivere l’identità immobile mentre tutto il mondo cambia. E sbaglia chi crede di poter ignorare o addirittura contrastare il pluralismo culturale e sociale.

La "risposta" di Durnwalder è stata completata pochi giorni dopo dal secco rifiuto, fatto in qualità di presidente dell’Università di Bolzano, all’offerta dell’Università di Trento di coinvolgere quella di Bolzano nei suoi nuovi progetti di sviluppo internazionale. Un suicidio.

Se la diagnosi è dunque chiara, non è altrettanto chiaro cosa si possa fare dall’esterno per uscire da questa pericolosa situazione. Che la parola pericolosa non sia eccessiva lo dimostrano i ripetuti episodi anche violenti che fanno emergere presenze inquietanti come quelle neonaziste sul territorio della provincia. La mancanza nella scena politica sudtirolese di una opzione interetnica, autonomista e moderata nelle prossime elezioni politiche, risultato del prevalere di una concezione chiusa e partitica della politica, non aiuta certo a sbrogliare la matassa intricata della democrazia sudtirolese.

Tuttavia, la parola "apartheid" non mi convince, perché troppo ancorata nella storia di un paese africano, perché ci pensa già Durnwalder a dire in TV che in passato "il Sudtirolo era come l’Uganda", e soprattutto perché le parole non sono astratte, ma riflettono il colore della pelle, il sangue, l’ingiustizia, il dolore.

E’ meglio trovare altre parole, anche se a volte l’abisso che separa l’ideologia etnica e la vita delle persone è così tragicamente insuperabile, e causa di così profonda amarezza, che siamo spinti ad usare parole forti. Ad esempio l’espressione, straordinariamente non banale, di Günther Pallaver, politologo sudtirolese che insegna all’Università di Innsbruck, che parla di "violenza strutturale etnica", quando un gruppo chiude la porta alle opzioni di vita degli altri. E’ di qui forse, su questa nuova-antica forma di riconquista del suolo, che si deve ricominciare a riflettere, per capire se e come sia possibile andare avanti.