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QT n. 7, 7 aprile 2001 Monitor

Moretti e Soderbergh

"La stanza del figlio" di Nanni Moretti è un film molto bello e terribile, capace di rappresentare il grande dolore umano con tratti essenziali, asciutti, con profondità e sentimento intenso, con nitidezza estetica ed etica, ben di rado perseguiti ormai sugli schermi.

Il regista si cimenta questa volta col dolore più grande, quello che nella mente di genitori spesso aleggia quale fantasma pauroso e temuto e che qui diviene feroce realtà: la morte accidentale di un figlio sedicenne, si può dire un evento contro natura. Preceduto da un affresco terso e sobrio di vita familiare, composto con maestria di brevi scorci che danno le linee delle personalità di padre, madre , figlio e figlia adolescenti, delle loro relazioni interpersonali, della Weltanschauung ispirata al rispetto, allo scambio comunicativo, alla coerenza tra dire e agire, e volta a vivere con senso, questo evento irrompe spaventoso a sconvolgere tutto e tutti; dissesta la quotidiana costruzione, interrompe, oltre la giovane vita recisa, il flusso delle altre vite, smarrite, annichilite, ma capaci ancora di dignità. Pur se ognuno con reazioni proprie, diverse e stranianti, che allontanano e rendono muti e rinserrati in sé nel momento duro e lungo della presa di contatto e coscienza con l’accaduto, genitori e sorella tornano piano, con le personali risorse e lungo una propria via, a guardare timidamente intorno e a guardarsi in viso, consci che la loro vita non sarà più quella di prima. In un quieto, bellissimo finale su una spiaggia all’alba, dopo l’incontro cercato, generoso e tollerante nella diversità del sentire, con la ragazzina primo amore di Andrea, scoperta per caso, si profila forse, per quelle tre persone, una ripresa cauta, nutrita delle premesse e dei valori umani coltivati e poi battuti dalla tempesta, esilmente vivi nel profondo, forse con l’audacia di riemergere, non in cerca di spiegazioni ma di trasformare tutto, anche i minimi spiragli, in risorsa.

Schiva di ogni patetismo o sentimentalismo, la messa in scena di questo pezzo di cammino nell’esistenza della famiglia così colpita, si sostanzia di una serie di momenti brevi e incisivi e di dettagli concreti e folgoranti nel loro realismo, oggetti, luoghi, parole, tutto parte di un lessico familiare, significativi nella loro essenzialità di un intero universo filosofico-esistenziale e sentimentale; e mostra il dolore non nella crudezza dell’urto, lancinante e stordente insieme, ma filtrato e ripercorso in flash-back del ricordo della vita comune, che riaffiora e afferra nella lucidità della solitudine a intervalli e a ripetizione.

In questo suo ultimo film, Moretti è giunto a un punto alto dell’iter verso la maturità, personale e artistica, perseguito e continuato con tenacia in tutti i suoi film, anche in quelli all’apparenza più leggeri e satirici: dove la satira, divertente con le sue battute, in alcuni casi divenute proverbiali, ma solo superficie di un contenuto più profondo e problematico, era già amara e greve di dolori piccoli e grandi, di un intimo malessere del regista, e veicolo di ricerca, ostinata e dolente, rigorosa e severa, di un senso della vita; e dove presente era già il distacco necessario, un’oggettivazione di sé, dati anche da precise scelte di linguaggio, inquadrature e montaggio, di recitazione, di stile.

Con l’assunzione qui del ruolo di psicanalista, si immerge nel dolore degli altri, che riconosce e dipana con responsabilità adulta, dopo aver negli anni e nei film riconosciuto le proprie quotidiane sofferenze col narcisismo, a volte, di un tardo adolescente; e in grado ora di ampliare lo sguardo fino a raffigurarsi e rappresentare con realismo quasi impietoso un dolore individuale intollerabile assurto a dolore universale, colpendo lo spettatore nell’intimo della sensibilità e della fragilità umane.

"Traffic" di Steven Soderbergh, insignito da poco di quattro Oscar, tra cui quello alla regia, racconta la difficile lotta al narcotraffico sulla pista tra Messico e Stati Uniti, tratte le situazioni da fatti di cronaca, costante la consulenza di esperti: narrazione, quindi, verosimile, anche nei momenti più spettacolari di violenze e cinismi su cui poggia il disprezzo per la persona, imperante in questi ambienti criminali e corrotti. La struttura si sviluppa in tre linee d’azione parallele nel fluire temporale e messe in scena con montaggio alternato e ritmo serrato, e in tre luoghi geografici, differenti ma collegati dalle vie della droga e dal piano attuato per vincerla, colorato ognuno, cifra questa di particolare eleganza, con una sua dominante cromatica: Ohio, e gli alti uffici di Washington, freddi colori azzurro-grigio, dove il giudice Wakefield è nominato coordinatore dell’operazione, nel corso della quale si imbatte nel dramma familiare della tossicodipendenza della figlia; Tijuana, Messico, tonalità giallo-sabbia, dove un onesto poliziotto si batte contro una corruzione invadente e ovunque insinuata, cui persino il suo amico di lavoro ha ceduto; San Diego, colori accesi e variegati, dove una ricca moglie, dopo la scoperta di un marito non serio uomo d’affari ma boss della droga, al suo arresto, in difesa di agi e denaro, si sostituisce a lui, più cinica e spietata di lui, mentre due investigatori arrivano al cuore di uno dei cartelli braccati.

Le tre storie si sfiorano, si toccano, si allontanano, e si incrociano vita pubblica e vita privata dei personagi impegnati in tale misera guerra. Il film è un thriller avvincente e ben costruito, dove trapelano una riflessione sulla debolezza umana, contro la quale, oltre la droga, devono combattere il giudice e gli altri, e l’attenzione, oltre l’azione, ai drammi umani sottesi: il che, trascendendo il genere e le sue regole, gli imprime uno stile molto personale e autoriale.

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