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QT n. 9, 5 maggio 2001 Monitor

“My fair lady”: avanti così

La versione italiana del celebre musical: operazione difficile, ma riuscita.

E’ da alcuni anni che del musical si è accorta anche l’Italia. Genere tutto, troppo americano, si pensava prima: e ci si limitava a vedere i grandi film dei musical di successo; e sulle scene, a guardare solo indietro abbarbicati all’opera lirica, alle sue grandi musiche e alle storiacce del melodramma ottocentesco.

Poi è scattata la voglia di cimentarsi con il nuovo genere che viene da oltreoceano, prima timidamente, poi con impegno e investimenti sempre maggiori. Intendiamoci, si tratta sempre - tranne che per alcuni ancor esili tentativi - della riproposizione dei musical americani. Ma l’impegno è sempre maggiore: e lo si è visto con il "My fair Lady" del Teatro di Messina, che per quattro giorni ha riempito il Sociale di Trento. Un’operazione di grande impegno: finalmente adeguato l’organico (con una ventina di coristi-ballerini), come pure i notevoli investimenti in scenografie, costumi e lavoro di adattamento.

Si tratta di un’opera tratta dal Pigmalione di George Bernard Shaw, e di cui fu realizzata anche una versione cinematografica con Rex Harrison e Audrey Hepburn. Fu un grande successo su tutti i tre fronti: il lavoro teatrale, il film con interpretazioni da Oscar, il musical, la cui colonna sonora fu popolarissima in tutti gli anni ’60.

La storia, dalle evidenti implicazioni sociali - una scommessa tra dandy londinesi: riuscire a trasformare una sciatta popolana in una raffinata dama di corte, agendo su fonetica e linguaggio - racconta una duplice trasformazione: quella della ragazza, Elisa Doolittle, e quella del suo stesso precettore prof. Higgins, misogino, altezzoso, brillante e sprezzante, che il contatto con la giovane renderà più sensibile e umano. L’educazione all’alta società da una parte; e dall’altra una educazione sentimentale, che risulterà più difficile, contrastata, dagli esiti tardivi e incerti.

Il musical riprende brillantezza e spessore del testo teatrale, vi aggiunge colonna sonora (strepitosa allora, ottima ancor oggi) e coreografia (oggi datata: i musical successivi hanno inserito la danza nel contesto della narrazione).

Trarne una versione italiana però non è semplice. La compagnia ha scelto la soluzione più impegnativa: tutto in italiano. Soluzione corretta - non si può impunemente passare, da un momento all’altro, dai brillanti dialoghi in italiano alle canzoni in inglese con sottotitoli - ma ardua. Infatti sconta i limiti della nostra lingua, che è eccezionale nell’accompagnare le musiche melodiche; ma inadatta, con le sue parole plurisillabe, piane o addirittura sdrucciole, alla musica ritmata, dove invece l’inglese, con la sua selva di parole tronche, segue e sottolinea anche il ritmo più incalzante. Così, tradotti in italiano, risultano eccellenti i brani romantici come "I should have danced all night" e "On the street where you live"; ma quando da "With a little bit/ of luck" si è costretti ad arrivare a "Con un pizzico/ di fortuna", metrica e ritmo vanno a quel paese; e la travolgente "Let a woman in your life", aggressivo manifesto misogino dello scapolone Higgins, perde ogni mordente, ridotta a "Se una donna entra nella tua vita" con le parole, in teoria brillanti e sprezzanti, che invece arrancano dietro una musica che ha due marce in più.

L’altro problema è il materiale umano, la mancanza di una scuola, che formi interpreti che sappiano contemporaneamente recitare, cantare, danzare. Qui si sono visti passi in avanti consistenti; e la regia di Massimo Piparo, da parte sua, ha saputo supplire con l’effetto d’insieme alle residue carenze individuali. Così Luca Biagini con il suo prof. Higgins, è risultato un ballerino anonimo, un cantante discreto, ma soprattutto un attore pienamente convincente: il suo professore, intelligente e cinico, pervaso da un debordante complesso di superiorità equamente riversato su rozzi popolani e inutili aristocratici, riempiva la scena con una presenza vitale, aggressiva eppur simpatica. Così Olivia Cinquemani, danzatrice improbabile, scontava soprattutto la normalità del proprio charme, quando invece l’Eliza Doolittle ripulita (e Audrey Hepburn ha fatto scuola) avrebbe dovuto affascinare la Corte d’Inghilterra; ma la sensibilità della recitazione, e soprattutto le grandi doti canore la riscattavano, e ampiamente: quando intonava "I should have danced all night" scattava la magia. Così infine Gian (il socio di Ric, per intenderci), che interpretava Alfred Doolittle, il cinico, sciagurato padre ubriacone di Eliza: era il corpo di ballo, prendendolo in mezzo e portandolo di peso a spasso per il palcoscenico, a sorreggerlo nei suoi solo volonterosi tentativi coreutici; era il coro, accompagnandolo e sovrastandolo, a evitargli una Caporetto nella celebre canzone "I’m getting married in the morning" (in genere uno dei punti di forza dello spettacolo, qui un arduo passaggio obbligato); ma era lui, nella preponderante parte recitata, a disegnare con grandissima vivacità la figura ambigua eppur umana e simpaticissima, del vecchio ubriacone, intelligente e sordido.

Conclusione: un ottimo spettacolo, una bella serata. Avanti così.

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